martedì 31 maggio 2011

La cosa pubblica e il dolore privato

Il mio nuovo sindaco (gia', nel frattempo la mia citta' ha abbracciato, senza esitazioni, il cambiamento) usa spesso parole nuove, parole che non si e' soliti sentire all'interno del discorso politico.
Una di queste e' l'aggettivo "affettuoso". Dice che la nostra deve essere una citta' affettuosa, una citta' dove nessuno si sente solo.
Oggi ho capito cosa intende.
Sono stata a fare un accertamento medico particolarmente fastidioso. Ci sono andata da sola, un po' perche' ho sopravvalutato la mia soglia di resistenza al dolore, un po' perche' mio marito era al lavoro.
Mi hanno comunicato che la signora delle prenotazioni aveva omesso un particolare, quando avevo telefonato per fissare l'appuntamento, cioe' che in quel centro non fanno esattamente lo stesso tipo di esame che la mia dottoressa aveva richiesto. Me l'hanno detto con me ormai sdraiata sul lettino, quindi posso solo sperare che lei non si formalizzi e che si faccia andare bene il risultato, altrimenti dovro' risottopormi a una piccola tortura. Risultato che non ho nemmeno capito se sia positivo o negativo, ed io ho una competenza medica superiore alla media perche' mia mamma ha studiato medicina e in casa mia si e' sempre masticato il linguaggio d base, non oso immaginare cosa avrebbe capito chiunque altro.
Mi hanno fatto pagare 160 euro, tanto ho l'assicurazione, no?
Non mi hanno fatto l'anestesia, dopo mi hanno lasciata sdraiata sulle seggioline della sala d'aspetto a far passare le fitte peggiori con il conforto di un'iniziezione di Buscopan, perche' non c'erano altri lettini e bisognava far entrare la disperata successiva. Solo un'altra paziente in attesa mi ha chiesto come stavo.
Lo scooter mi ha abbandonata sulla via del ritorno (non so perche', dato che mio marito l'ha riportato a casa senza problemi poche ore dopo) e un signore mi ha intrattenuta dieci minuti mentre decidevo se chiamare o meno il carro attrezzi, con quel misto di galanteria e untuosita' che caratterizza troppi maschi di questo paese, cui non sai se sorridere o dare del vecchio porco.
Ho preso la metro sognando solo di poter lasciare una borsa troppo pesante e stare ferma a letto per un po', a fare il mio buco con i gatti come guardiani.
Mentre scendevo verso il treno ho visto un cartello con il sorriso del mio sindaco, che mi augurava il buongiorno.
Non mi e' venuto da mandarlo affanculo.
Mi sono sentita rassicurata.
Penso che fosse della mia solitudine di oggi che l'ho sentito parlare in Piazza del Duomo, penso che quando parla di citta' affettuosa pensi a quanto mi sarebbe servito uno sguardo complice oggi. A quanto avrei avuto bisogno di una dimensione pubblica, perche' non ci sono cazzi, secondo me: quando hai del male addosso, quando ti devi fare esplorare  per capire se la tua vita prendera' una direzione o un'altra, se avrai o non avrai figli usciti dalla tua pancia, vuoi solo che lo faccia qualcuno che non ha interesse - economico, di soldi e guadagno - al fatto che gli esami siano positivi. Vuoi la compassione di un medico che spera tu non abbia piu' bisogno di lui, vuoi il conforto di un lettino anche in un posto senza pavimenti in parquet lucido e che qualcuno di autorevole ti dica che passera', vuoi uscire per strada e non essere fermata da un vecchio marpione, ma da qualcuno che ti chiede se vuoi una spinta per far ripartire il motorino.
Ce l'hai, ce l'abbiamo dura, sindaco mio. Non so se ce la farai, se ce la faremo. Non so nemmeno se potro' rispettare la promessa e rimanere a vivere in questa citta', il lavoro e l'Emilia vogliono portarmi via.
Ovunque vada, pero', mi portero' addosso il tuo uso di parole familiari in una sfera non banale, la dolcezza e lo stupore dello sguardo che avevi ieri sera, mentre tram arancioni risuonavano di "Tutta mia, la citta'" e, almeno un po', ci siamo sentiti tutti a casa.

domenica 29 maggio 2011

Non voglio essere un piumino di tiglio

E un altro giorno e' andato. E un altro sogno e' andato. Un'altra illusione di stabilita', di casa, bruciata. O forse no.
Giusto perche' non pensiate che sia pazza: venerdi' e' arrivata la proposta. La proposta di lavoro che aspettavo da tempo. La fuga perfetta. Mesi di colloqui e poi la telefonata: "Posso parlarle, dottoressa? Ha tempo per segnarsi qualche cifra?".
I numeri, intesi come soldi, sono tanti. Molti di piu' di quelli che prendo ora. Non troppi, altrimenti penserei che mi stanno sopravvalutando, che corro il rischio di bruciarmi subito. Non pochi, perche' altrimenti non staremmo qui a parlarne. Pero' i soldi non sono la questione.
La mia filosofia sul denaro e' on - off, o ci sono o non ci sono. Se non ci sono e' una tragedia. Se ci sono bastano. Non ho gusti particolarmente raffinati, le borsette di vuitton non mi piacciono. Sul serio, le trovo oggetti poco interessanti. Non sono una viaggiatrice zaino in spalla, ma non ho bisogno del lusso. Dei posti mi piace sentire il caldo, non l'aria condizionata.
Amo la mia casa - che e' bellissima - anche perche' e' in periferia. In centro ci stanno i cagoni, penso di avevelo gia' scritto, quelli che non hanno mai piantato il basilico con l'indice come ho fatto stasera e non si sono mai grattati via la terra da sotto l'unghia con lo spazzolino apposta.
Avere molti piu' soldi, incomparabilmente piu' soldi, non cambierebbe di una virgola i miei desideri e i miei sogni. Felicita' e' un dondolo, nessuno me lo toglie dalla testa.
Il lavoro, dicevamo. Il lavoro nuovo consiste nel ricominciare daccapo a fare quello che ho fatto nell'azienda in cui lavoro oggi. Un pazzesco rewind, perche' loro sono messi come era messa la mia azienda nel 2007, quando io e la mia mentore - o ex mentore, ora aguzzina indifferente o ferita, che e' la stessa cosa - abbiamo cominciato a lavorare li'. Tutto da fare, tutto da inventare, un percorso da costruire, sul quale trascinare gli altri, convinte che li avremmo fatti piu' felici. Perche' noi siamo i buoni in un'azienda di cattivi. Quelli che si occupano di redistribuire i soldi, di ribilanciare gli interessi, quelli che hanno lo sguardo al valore di lungo periodo e non al profitto di breve termine. Noi siamo la sostenibilita' in una multinazionale del petrolio, e ho detto tutto. Quante volte i colleghi mi hanno detto: "voi si' che fate cose interessanti, voi si' che fate un bel mestiere." E' vero, e' un bellissimo mestiere, con tutto il dolore delle contraddizioni, dello stare sul crinale perche' non sai e non hai modo di sapere se quando ti dicono che inquini i fiumi in Africa e' vero oppure no. Puoi solo rispondere che cerchi di non farlo, che se lo fai cercherai di farlo sempre meno. Devi cercare di non essere ridicolo negando l'evidenza e di continuare a crederci. Quindi un bel mestiere, che spesso fa venire il buco nello stomaco, perche' solo i cretini non hanno dubbi e quindi ne hai anche tu tutti i giorni.
Le differenze fra l'attuale lavoro e la proposta: quelle radicali sono due. La prima e' che non c'e' la mentore, nel senso che avrei io il suo ruolo. Questa e' la cosa piu' divertente di tutte, ammetto con un filo di superbia che e' l'aspetto che mi fa meno paura. Penso sinceramente, umilmente, di doverle tutto.
Di lei ho l'essere esigente fino alla maniacalita' (vi ricordo che tolgo a mano gli afidi alle rose invece di usare un semplice spray), da lei ho preso il coraggio e il non avere paura delle imprese che sembrano troppo grandi (lo dimostra il giardino intero, i pomodori che prosperano nella grande citta'), per lei ho "messo su il canino", come dice mio marito, nel senso che ho imparato a essere dura quando serve, a non temere il conflitto, a non essere sempre troppo gentile. Troppo emiliana per questa citta'.
Di migliore, rispetto a lei, ho il fatto che voglio bene agli altri e, anche se sembra incredibile dato il mio portato di traumi adolescenziali, sono abbastanza convinta che gli altri vogliano bene a me. Sono meno spaventata, meno insicura, meno aggressiva perche' non ho bisogno d soffiare a chiunque mi voglia solo fare una carezza.
Per questo penso di poter fare onestamente, con dignita' e con una certa possibilita' di successo il mio mestiere nella nuova azienda.
Lei e' piu' geniale di me. Io sono piu' umana. Qualche vantaggio conto che ci sia.
La seconda gigantesca differenza e' che la nuova azienda e' percepita come buona quanto l'altra e' percepita come cattiva. Anche questa si occupa di bisogni primari: non energia, ma cibo. Pero' non ha addosso l'odore di zolfo, e' portatrice di un messaggio interessato, ma condivisibile, che invita a non mangiare carne, ma cereali e legumi.
Io sono un po' stanca di dire una cosa in cui credo, cioe' che l'emancipazione femminile, la scolarizzazione, la morte a novant'anni invece che a trenta sono sottoprodotti del petrolio. E' vero, ma e' duro.
E' bello pensare di andare a lavorare per qualcuno che non e' percepito come un male necessario, per qualcuno che ha inventato le sorprese nelle merende (o almeno me lo ricordo cosi'). Non che la' non ci sia nulla da ridistribuire. Si tratta di nutrire il pianeta, niente meno. Ma almeno non ci sono foto con i cormorani ricoperti di merda e i pescatori che pescano cadaveri perche' e' esplosa una piattaforma e a te sembra di prendere tutti in giro.
Qual e' il problema, direte voi? Ti danno soldi per fare qualcosa che pensi di saper fare, lontano da colei che ti ha dato tutto quello che poteva darti e adesso ti succhia solo allegria e fiducia nel mondo, in un'azienda che rispecchia quello che sei o vorresti essere.
Il fatto e' che devo trasferirmi dalla citta' in cui vivo, andare a stare in una deliziosa cittadina piu' piccola, piu' vicina al posto dove sono nata, dove la gente, probabilmente, non se ne fara' niente del mio canino, che piano piano regredira', riportandomi a essere una personcina per bene invece che un lupo mannaro.
Devo lasciare mio marito, i gatti, il giardino per quattro notti la settimana. Sperando che un giorno o l'altro lui, loro e le piante salgano su un camion e mi raggiungano, il che mi allontanerebbe dai miei vicini, da quest'equilibrio precario e prezioso che ho costruito in quest'anno.
Adesso che ho capito che il lavoro non e' tutto, che mi interessa la mia vita, che mi importa dei gesti piccoli, dello strofinare le foglie di limone fra le dita per sentire l'odore, del bollettino dei boccioli sbocciati la mattina, dei passi sul pavimento caldo di sole del giardino. Adesso che so cosa vuol dire sedere con la brezza fra i capelli sul dondolo la sera, osservare l'ortensia che cambia colore, bere il cappuccino passeggiando fra pomodori e zucchine, spazzare i cadaveri di scarafaggio che la gatta piccola mi ha portato nella notte intorno al letto, trovare una piantina del vicino misterioso da piantare in cortile, desiderare almeno un po' un figlio.
Adesso che c'e' pace qui, fra i muri protetti della casa che mai ho avuto il coraggio di sognare, che ci sono i pantaloni a righe e la luna appesa nel buco fra i tetti postindustriali, che c'e' mio marito sul divano e la pizza mangiata fuori, l'albero di Natale fatto con i rami potati delle tuje, la poesia di un tempo che finalmente puo' rallentare.
Occorre sognare un monolocale che abbia almeno un pezzetto di giardino o un piccolo balcone. Occorre sperare che il suo ottimismo sia premiato e che fra solo un anno trovi un lavoro anche lui nella piccola citta'. Bisogna pensare che il gatto grande non si offendera' e che nel suo modo strano mi vorra' ancora bene anche se lo tradiro' andandomene. Che la piccola non dimentichi come mi fa le fusa.
C'e' un'altra casa da sognare, dubitando che possa essere felice come questa, piante che si spera sapro' acclimatare e che non prenderanno malattie terribili fra il lunedi' e il venerdi'. Ci sono bambini che non verranno su nemmeno in questa casa, una piscinetta gonfiabile in fondo al giardino che non esistera' mai.
Un dolore sordo di una vita destinata a essere sempre di corsa, condannata a non conoscere decrescita e rassegnazione anche quando li desidera e li ha ottenuti.
Mi sento come se di nuovo fosse comparso il destino a dirmi cosa devo fare, perche' l'oggi e' gia' ritornato solo un'attesa di domani.
Vorrei potermi fidare della voce che ho dentro, che e' limpida come quella di un cantante di quando ero bambina, che aveva un ritornello che diceva: "hai davanti un alto viaggio e una citta' per cantare" e sperare che, alla fine di quel viaggio non ci sia ancora un altro viaggio, ma un giardino, i miei gatti e mio marito, con un bambino di qualunque colore in braccio.
Ho piantato rucola e basilico, oggi pomeriggio, mentre facevo questi pensieri. Pensavo di non voler seminare solo piante annuali. Pensavo che voglio essere una quercia e non un piumino di tiglio, che non voglio correre il rischio di volare via lontano da lui e da loro.
Bisognera' solo stare a vedere se il mio destino me lo consentira'.

giovedì 26 maggio 2011

Se il giardino avra' le gambe

Il cielo ha il colore dell'oleandro, un color guancia di bimbo appena accennato. La vita scorre intorno, nelle case che sovrastano il giardino. Il ragazzo del sax - personale colonna sonora delle mie sere qui - si esercita con le finestre aperte, nella sua casa da qualche parte in alto a destra (partendo dal dondolo). Un neonato urla e penso sua madre lo mettera' in lavatrice fra poco. Niente tv stasera, questo e' strano. Il cane abbaia alla gatta piccola, che passeggia indolente sul bordo del muro. E' gia' stanca prima ancora della caccia notturna agli scarafaggi e ai grilli, il suo modo per dimostrare che se in questa casa non ci fosse lei...Il gatto grande, avvolto in troppo pelo, e' gia' steso dal caldo e cosi' restera' fino a settembre.
E' tutto immobile, come la mia vita in attesa, a palla di riccio. La frenetica attivita' della rosa vecchia e il fiorire tardivo del peperone sono le uniche eccezioni a questa staticita' apparente. Persino gli afidi, che tolgo a mano la mattina per evitare di dare insetticidi, tanto il peggio e' passato e sono relativamente pochi, stanno immobili a farsi pizzicare via.
In realta' tutti gli abitanti del giardino sono al lavoro. I pomodori a ingrossare le loro miniature di pomodoro, il limone a produrre quel suo unico limoncino su cui riversa un'attenzione tale che ogni mattina vado a controllare che un gatto disgraziato non l'abbia fatto cadere per sbaglio, altrimenti mi tocca chiamare lo psicologo dei limoni.
Gli ulivi - bonta' loro - hanno trasformato in minuscoli pallini tutti quei loro inutili fiorellini che sembrano paillettes. Ce li avete presente i fiori dell'ulivo? Ce le avete presenti le paillettes degli anni ottanta? Uguali. Fiori piccolissimi e bianco sporco, che si staccano lasciando il centro attaccato alla pianta (l'oliva, appunto), per planare per terra con il loro buco perfettamente circolare al centro, pronti per essere cuciti su un top di Madonna dei bei tempi.
Spero che la mia vita sia come il giardino in questo momento. Una catatonia apparente, sotto cui si percepisce un gran tramestio, un cambiamento che esplodera' d'un tratto, dopo un'immensa preparazione silenziosa e invisibile. Io sono pronta, devo solo aspettare.
Ieri sera pensavo a una frase di Che Guevara, di quelle che si scrivono sui diari da adolescenti, che dice: "la mia casa avra' le gambe e i miei sogni non avranno confini", me la ricordo piu' o meno cosi'.
Pensavo che se cambiero' citta', per seguire un lavoro che sara' finalmente solo un lavoro, voglio un giardino con la terra, senza pavimento.
Anche se non ne trovero' mai uno cosi' sicuro per i gatti, ne' per me.
Pero' pensavo anche che ci portero' le mie piante dentro i vasi, che non le mettero' in piena terra, perche' altrimenti poi come faccio se le devo spostare? Solo annuali, tanti fiori da taglio e l'orto a punteggiare il giardino e le mie piante  in assetto da viaggio perenne, pronte a ripartire con noi se dovremo di nuovo andare.
La nostra vita sembra prendere una piega cosi', da non poter mai chiamare casa una casa, nemmeno questa che e' il mio rifugio, il posto dove stare al sole e fare il buco e nascondermi nello stesso tempo.
Allora daro' ragione mio marito, che mi dice sempre che il tuo posto non la fanno i muri, ma la facciamo noi, e i gatti.
Io aggiungo il giardino, il mio giardino immobile e con le gambe.
Quello che spero mi sia sempre specchio, confronto e conforto.
Come lo e' ora.

martedì 24 maggio 2011

Di gelsi e di bambini Gesu'

In ufficio c'e' un clima molto strano. C'e' spesso un silenzio cupo, a dispetto della primavera piu' bella da sempre. C'e' tensione come se ogni parola potesse scatenare un disastro, o forse c'e' solo inquietudine perche' chi se l'e' sempre presa non se la prende piu'. Ogni tanto qualcuno si scalda per una questione abbastanza da arrabbiarsi col prossimo, ma il fuoco si spegne subito, come se tutti avessimo cose piu' importanti da fare e tutte fuori di li'. 
Un giorno, durante una di quelle liti che hanno segnato questi tanti anni di conoscenza e che mi sembrano scaramucce da bambini, se ci penso ora, in piena guerra fredda, mi disse che non era importante che chi lavorava per lei la capisse, ma soltanto che le obbedissero. Forse aveva ragione, per comandare non bisogna essere compresi e seguiti per convinzione, basta istillare la paura, o, piu' semplicemente, diventare cosi' insopportabili quando contraddetti da trasformare tutti in obbedienti bamboline, pronte a dare ragione su qualunque cosa pur di non discutere, finire in fretta e uscire dall'oppressione di quelle stanze. 
Avevi ragione, amica mia, per comandare non bisogna essere amati. Anzi. Per affetto le persone tendono a dirti quello che pensano, cosa che a volte puo' essere parecchio spiacevole. Ma perche' gli altri ci mettano il cuore in quello che fanno, si'. 
C'e' una cosa di cui sono orgogliosa, in questo periodo assurdo. Sento affetto, stima e bisogno di me intorno. E' una sensazione molto dolce, in questo funerale insensatamente prolungato che e' la mia vita professionale in questo momento. E' come pensare che non tutto e' stato vano. So di essere abbastanza insopportabile. La mia spigolosita' e' eccessiva, non tollero nulla senza avere bisogno di contare palesemente fino a cento, sto in silenzio in riunione e mi distraggo con niente, non sembro sincera nemmeno quando sono d'accordo sul serio. Sono il contrario di come sono, una che si scalda per niente, ma come niente si raffredda, non sono piu' appassionata, almeno li' dentro. 
Ho deciso che questa volta non si ricuce, che non si torna indietro, ma anche per alimentare il distacco ci vuole energia, altrimenti la routine tende a smussare gli angoli, a stringere di nuovo i legami come acqua sui nodi e non si riesce piu' ad andare via. Non sono una persona rancorosa e resistere alla freddezza e' piu' faticoso che serbare odio vero nello stomaco. 
Da bambina, andavo a letto arrabbiata con mia mamma, mi svegliavo che non lo ero piu' e speravo con tutta me stessa, appena aperti gli occhi, che anche lei, nella notte, avesse dimenticato l'offesa. Non reggevo la rabbia del mattino dopo, era troppo per me. Per fortuna assomiglio a lei, quindi le facce truci del giorno dopo non hanno fatto parte della quotidianita' della mia infanzia.
Mio padre sapeva stare offeso e muto per giorni, e' sempre stata una cosa terribile per me. A volte non si capiva nemmeno perche', a volte era stato un episodio sproporzionatamente piccolo ad alimentare quella cupezza che oscurava il sole. Io gli voglio bene nonostante ogni razionalita', ma non riusciro' mai a perdonargli fino in fondo quell'incertezza che ancora ho addosso, la paura di scatenare la tempesta senza nemmeno accorgermene che e' un marchio delle relazioni piu' dolorose della mia vita. 
A volte ho ancora un incubo che mi porto dietro dalle elementari, la distruzione di un bambino Gesu'. E' un ricordo lucido e perfetto, come un film di Dario Argento. Premetto che mio padre e' un artista. Ha fatto il pittore di mestiere finche', come dice lui, ha avuto qualcosa da dire ed e' bravissimo con le mani, sa dare forma alle cose con una precisione assoluta e sa trasformare le idee in oggetti a partire da materiali semplici. Nel caso specifico si trattava di un rotolo finito di carta da cucina, di qualche straccio, di un po' di creta Das. Lo scopo del gioco era fare una statuina del presepe, un bambino come ce ne sarebbero stati altri venti sui banchi della mia classe. 
Mia madre aveva preteso che mi aiutasse mio padre, in uno dei suoi sporadici tentativi di applicare qualcuna delle regole imparate nel manuale del genitore perfetto.
Lui aveva effettivamente modellato una testa da incollare sul rotolo e fasciare con gli stracci. Mentre la faceva, a me era chiarissimo che non la volevo cosi'. Il bimbo Gesu' che gli usciva dalle mani sembrava un neonato vero, aveva rughe e pieghe, era naturalistico in modo eccessivo. Quella testina grigio Das sembrava tirata fuori cinque minuti prima col forcipe da un parto difficile. Io volevo un bambolotto. Volevo una palla con il naso a patata, gli occhioni blu e le guanciotte rosee. Vallo a spiegare, a una bambina di sei anni, che il Mantegna ha tolto l'idealismo dalle figure sacre rappresentando un compianto con un vero cadavere, per di piu' con i piedoni in primo piano e Maria invecchiata. 
Io volevo Cicciobello, nel mio scarso timore reverenziale di bambina emiliana speravo di toglierlo dalla mangiatoia il prima possibile e farne uno dei miei bambolotti. Ricordo con chiarezza che avevo insistito per fargli un forellino nella bocca finche' la creta era fresca, per poterci infilare il ciuccio. 
Se da un lato non volevo quella statuina cianotica da portare in classe, dall'altra ero terrorizzata all'idea di dire a mio padre che non amavo l'oggetto che stava facendo per me. Temevo la sua rabbia sconfinata, i giorni e giorni di muso lungo e silenzio spettrale, dopo le urla e le bestemmie che mi terrorizzavano.
Guardavo mia madre nella speranza di un suo soccorso, ma lei mi ignorava. Preferiva una figlia senza bambolotto alle scenate epiche di cui lo sapeva capace.
La tensione cresceva, io con il pennello intinto nel rosa maiale in mano non sapevo da che parte cominciare per addolcire quei tratti contratti.
Non mi venne in mente niente di meglio che farmi scendere sulle guance dei gran lacrimoni. Cos'hai, adesso, dimmi cos'hai. Mi chiese mio padre, gia' innervosito. "non mi piace" balbettai con la bocca quadra dei bambini che finalmente scoppiano "io lo volevo...normale."
La scena al rallentatore della testa di neonato che si solleva nella mano di mio padre e che si infrange in mille pezzi sul pavimento l'ho ancora negli occhi, cosi' come la certezza che sarebbero passate settimane prima che potessimo di nuovo parlare e il senso di colpa per non aver saputo prevenire quel gesto li ho ancora da qualche parte, dentro di me.
Per fortuna mio marito non resiste al rancore piu' di dieci minuti. A confronto, io sono bravissima a tenere duro. Forse l'ho sposato per questo, per la certezza che e' buono nell'animo e non gli passa mai per la testa di coltivare la rabbia per far male agli altri. 
Fine del flashback, si torna in ufficio. Tanto e' difficile starmi di fianco ora, quanto devo essere stata capace di seminare qualcosa prima, se questa sera ho messo a radicare delle talee di gelso bianco, rametti giovani che una persona che sto danneggiando e lasciando sola con questa scelta, inevitabile ormai, ha voluto portarmi questa mattina. 
Me le ha lasciate in un sacchetto sulla scrivania, un sacchetto di carta con dentro un sacchetto di plastica a tenere umidi i fogli di giornale in cui ha avvolto questi germogli bellissimi, che ho letto essere il cibo preferito dei bachi da seta.
Un gesto di cura e amore che ho cercato di portare a casa in motorino. Ho tolto tutte le foglioline, tranne quelle apicali. Ho raffreddato i rami e li ho messi in un bel vaso di vetro all'ombra, con acqua, un cucchiaio di terra e il chelato di ferro, che mia mamma usa per far radicare bene gli alberi da frutto. 
Sono nella nursery, i miei rami, a fianco del vaso in cui, finalmente, sono spuntati i peperoncini dai semi che mi ha portato la mia vicina dalla Toscana. Ho guardato diversi posti, ho meditato di metterle in casa nel mio bagno, dove svernano le piante piu' delicate. Poi ho pensato che quello era il luogo giusto, perche' li' sono nati i pomodori che crescono a vista d'occhio, li' le zucchine hanno trovato la loro esuberante felicita', li' ci sono la menta che cresce anche lei a dismisura e li', incredibilmente, il peperone ha abbandonato le sue indecisioni e ora sta addiritttura facendo i fiori. 
Ho immaginato le mie piante che parlavano ai rami di gelso, nelle lunghe giornate uggiose senza di me,  dicevano loro che qui si sta bene, che io non dimentico mai di innaffiarle tutte e di occuparmi di loro, quindi era un posto sicuro per mettere radici e restare. 
Ho pensato che dicessero ai gelsi che sono una brava persona, la stessa brava persona che anche in ufficio, nonostante tutto, ha lasciato abbastanza affetto perche' qualcuno le portasse un regalo. 
La stessa che non ha colpa, se non riesce a stare in un ufficio dove non trova piu' sogni e se non le piacciono i neonati come sono, ma ha bisogno di immaginarli piu' belli e rosei, fatti per giocare e non solo per soffrire. 
 

lunedì 23 maggio 2011

Statistiche

Stasera ho guardato le statistiche di pepetrolio e ho visto che ci sono quattro pagine visitate dall'India.
Mi fa sorridere il pensiero di una Sonia annoiata nel caldo di New Delhi, che cerca svogliatamente il proprio nome su un motore di ricerca nella sua lingua natale, come sempre si fa quando si e' sovrappensiero.
Trova il blog di una trentenne italiana che ha sbagliato tutto nella sua vita (oggi, poi, piu' del solito) e che riflette sul cambiamento a partire da chi ha fatto scelte radicali e assolute come la sua.
Legge di se' su un sito lontano lontano.
Sorride.
E augura buona fortuna a quella sconosciuta.

domenica 22 maggio 2011

Piccolo mondo antico

Ho pensato che era ora di cominciare a raccontarvi dei miei morti. 
Puo' sembrare una cosa un po' macabra, ma vi assicuro che non lo e'. 
Il cimitero della cittadina in cui sono sepolti tutti i miei parenti e' un posto bellissimo, con un quadriportico tutto intorno e un grande giardino in mezzo. Mia madre racconta sempre che quando da piccola lei e mia nonna mi portavano con loro al cimitero, io cominciavo a ispezionare ogni tomba con cui non avevamo nulla a che fare, controllando quali piante avevano bisogno di essere innaffiate, per poi fare avanti e indietro con i secchi pieni dal rubinetto comune. Quando ogni pianta trascurata aveva avuto le sue cure, andavo ai grandi cesti di ferro battuto in cui allora si buttavano i fiori appassiti e ripescavo tutti quelli ancora freschi e non sciupati. Ne facevo grandi mazzi e ricominciavo il mio giro. Sulle tombe c'erano spesso vasi vuoti e io distribuivo i miei omaggi riciclati ai troppi morti senza fiori, finche' il mio personale equilibrio cosmico non si era ristabilito. A quel punto facevo visita ai miei parenti che riposavano sotto diversi archi del portico, come avrei fatto un saluto suonando ai campanelli delle vie del paese. Il fatto e' che uno dei tanti doni di mia madre e' una relazione di grande continuita' fra chi appartiene a questo tempo e chi non c'e' piu', una visione della vita in cui le generazioni camminano sulla stessa terra, attraverso storie e parole che trattengono in questo mondo chi se n'e' gia' andato. Mia madre ha un fondo animista che mi ha trasmesso con il latte, attraverso il quale ogni oggetto si porta dietro una persona, ogni avvenimento una storia, ogni casa degli abitanti. Conosco cosi' tanti aneddoti sui miei avi da parte di madre che mi sembra di averli conosciuti tutti, compresa la bisnonna Isabella che, purtroppo, e' scomparsa per tisi prima del 1930, incluso lo zio Arcangelo, che era sordo, muto e cieco, ma era stato mandato a scuola per imparare a parlare e quindi si faceva capire, anche se faceva un po' paura ai bambini. Persino le prozie Giovanna e Bruna mi pare di doverle ritrovare quando vado a Vignola, anche se sono morte a quindici e diciassette anni cosi' tanto tempo fa che mia nonna e mia zia si chiamano come loro. Da piccola, a me impressionata che indicavo i loro nomi sulla grande lastra di una delle tombe di famiglia, le due signore, che all'epoca mi sembravano gia' vecchie, dicevano ridendo che era meglio cosi', che non ci sarebbe stato bisogno un giorno di far faticare di nuovo lo scalpellino. Ora sono ancora qui e gli scalpellini non ci sono piu', ma ridono ancora di questa inquietante omonimia che a loro sembra perfettamente normale. 
A casa mia e' usuale indicare i proprietari degli oggetti come se fossero tutti vivi. "Vai a prendere le tazzine della zia Rosina" (defunta centenaria nei primi anni ottanta). In bagno, qui in citta', uso come tenda un asciugamano dell'Elda (anche lei morta a cento anni, non tanto tempo fa), mentre i libri di Giancarlo (lui no, strappato giovane a una me ragazzina) sono sulla mia libreria. Sembrera' un dettaglio, ma non usare aggettivi o perifrasi che collochino quelle persone nel mondo dei morti, frasi come: "i libri del povero Giancarlo" o "le tazzine che erano della zia Rosina" colloca i miei parenti sul nostro stesso piano, fa pensare che tu possa entrare in salotto e trovarli li', o sentirli entrare in casa da un momento all'altro. 
Vale per quelli che ho conosciuto e per quelli che non ho mai visto. Ieri passeggiavamo per i filari di Piumazzo, raccogliendo duroni lucidi come gioielli, e mi pareva di veder vagare, chissa' perche' con le mani intrecciate dietro la schiena e il passo un po' curvo di mio zio, mio nonno, morto prima che io nascessi, che amava camminare nei campi, anche se non poteva lavorare perche' un infarto lo aveva gia' colpito da giovanissimo e un altro se lo sarebbe portato via poco dopo. Un uomo silenzioso e schivo, cosi' diverso dalla mia nonna volitiva, chiassosa e viaggiatrice, che non coglieva come lei l'anima commerciale di quel luogo, ma solo la poesia di un sole gia' caldo ma non ancora spietato su perle rosso sangue intrecciate alle foglie.
Stamattina, invece, affacciata al balcone della casa di Vignola, guardavo al piano di sotto la grande terrazza delle zie, con le ringhiere ormai tutte arrugginite sulla balaustra, messe li' per attaccarci le cassette dei gerani, anche se alle zie la terrazza e' sempre sembrata piu' che altro un posto in cui stendere. 
Rosina e Irma abitavano li' e non si erano mai sposate, avevano badato a lungo allo zio Arcangelo, quello sordomuto e cieco, per poi prendersi cura di Bianca Maria, che era rimasta orfanella. L'avevano vista nascere, perche' era figlia della loro sorella sposata. Appena venuta al mondo le avevano messo una sveglia attaccata all'orecchio e lei aveva pianto spaventata. Le zie avevano tirato un sospiro di sollievo. La bambina non era sorda come a volte in famiglia capitava. 
Era successo anche a un'altra loro sorella, che penso si chiamasse Maria. Era bellissima. Il pomeriggio stava seduta a ricamare sul balconcino che dava sul corso del paese, dove passava ogni sera un ufficiale dell'esercito. Penso stiamo parlando della prima guerra mondiale, non certo della seconda. Immaginatevi lei con il colletto alto, la crocchia gonfia, la gonna fino in fondo ai piedi. Lui con i baffoni e le mostrine sulle spalle. Ho molte foto che ritraggono tutti piu' o meno cosi', un po' sbiaditi ma elegantissimi. L'ufficiale sorrideva alla ragazza, lei a lui. La cosa ando' avanti per mesi, finche' in paese non se ne accorsero, con crescente dolore. Qualcuno, con una stretta al cuore, ebbe il coraggio di dire al soldato che Maria del balcone era davvero bella come la vedeva il suo amore, ma sorda e muta, impossibile a quei tempi da sposare. Si dice in famiglia che lui pianse e non si vide mai piu' da quelle parti. E' certo che lei mori' poco dopo. 
Bianca Maria, comunque, era una bambina sanissima, che crebbe e divento' la mia insegnante di ricamo prima, quando ero piccola e scendevo da lei la sera a guardare la tv, fare gatti storti a punto croce e chiacchierare di tutto, perche' di Bianca Maria mi piaceva che mi parlasse sempre come a un'adulta. Divento' la mia maestra di latino poi, quando le sue mani bellissime, con al dito un anello che mia mamma mi ha regalato quando mi sono sposata e lei non c'era gia' piu', mi mostravano l'ordine giusto per trasformare un intrico di sillabe senza senso nella prosa elegante e un po' pomposa del Cicerone della versione. 
Bianca Maria mi ha fatto i buchi nelle orecchie a sei anni, mi ha insegnato, insieme a mia madre, ad amare le parole sopra ogni altra cosa, mi ha salutata una sera d'estate come solo lei avrebbe potuto fare. 
Era gia' malata da tanto. Per fortuna negli ultimi giorni si era persa in un mondo lontano, fatto di tutte le scene piu' belle della sua vita nubile e senza figli, ma con tanti studenti, libri e articoli, la cultura fatta donna, come solo la prof. stimatissima di una cittadina di provincia puo' imcarnarla. Io stavo seduta al suo fianco, le tenevo la mano che strappava la flebo, convinta di non averne piu' bisogno nei prati e nelle aule in cui si trovava. Continuavo a rispondere alle sue frasi per me senza senso, cercavo di carpirle un'ultima storia, sentirle ancora una volta raccontare la realta' con la precisione in technicolor di chi conosce le parole esatte per dire quello che vuole. 
Ad un certo punto i suoi occhi grandi e un po' all'infuori (non dovuti alla fine della vita, occorre dirlo. Bianca Maria aveva le mani belle, il resto molto meno) mi hanno trovata. Mi ha guardato con l'aria gioiosa di una bambina che non vede l'ora di rivelarti un segreto, che sa che non dovrebbe, ma non resiste. 
Ha sorriso in modo quasi malizioso, per quanto il suo naso severo e le labbra sottili glielo permettessero, rapita dalla bellezza assoluta di quello che aveva in mente. 
"La vuoi sentire una bella parola?" mi ha chiesto. 
Ho annuito.
"Crepuscolo".

venerdì 20 maggio 2011

I bambini e i pomodori nascono sotto i cavoli

Stavo giusto pensando stanotte che da un po' di giorni in giardino non succedeva nulla. Ieri sera avevo fatto la mia consueta ispezione per verificare lo stato di avanzamento dei pidocchi, se i boccioli delle rose fossero o meno diventati piu' grossi e tondi. Non avevo nemmeno ancora scoperto di che colore fosse la pianta nata da talea che viene dal fosso della mia casa natale.
Stavo riflettendo su come tutto esplodesse a primavera per poi consolidarsi nei giorni fermi dell'estate, come se un branco di broker newyorkesi all'improvviso di tramutasse in un gruppetto di messicani in un paese di sieste perenni.
Stamattina mi sono svegliata abbastanza presto perche' dovevo andare in ufficio, rincoglionita come sempre perche' faccio fatica a dormire, da mesi ormai. Mi sono infilata qualcosa addosso, ho riempito la tazza di cappuccino e sono uscita. Mi piace moltissimo andare fuori con i gatti a salutare le piante prima che il sole le renda tutte bianche e attonite. Sono fresche e riposate, perche' loro dormono sempre bene. Ondeggiano svegliandosi piano piano e sembrano sorridere. Non come alla sera, quando anche loro sembrano appena tornate dal lavoro, capelli miei e foglie loro ugualmente arruffati.
Il giro prevede in questi giorni il tour dell'ortensia, per vedere quante blatte verdi sono diventate rosa, seguito dall'analisi del glicine che ha un po' di malattia dei pois e devo ancora capire se preoccuparmi o meno. Arrivata all'orto sembrava tutto sotto controllo: le tre fragole in solenne maturazione, le zucchine piene di fiori e frutti, il peperone (di cui non parlo mai, a dispetto del titolo di questo blog, perche' non ci siamo ancora capiti bene) in lenta, lentissima crescita, i pomodori...gia', i pomodori. Fioriti di giallo, come da mesi ormai. Alti, svettanti, come sempre. Bisognosi di sostegni piu' lunghi e spessi, di nuovo.
Pieni di palline verdi.
Pensavo di aver avuto un'allucinazione. Invece no, sono cuori di bue formato mignon, praticamente uno per ogni fiore. Posso giurare che ieri sera non c'erano, sono sbucati all'improvviso, gia' perfetti e formati, solo da colorare di rosso con il pennarello e mettere nell'insalata. Li ho fotograti e spediti alla mamma, a mio marito, mostrati a tutti in ufficio come figli che compiono i primi passi, perche' fanno davvero impressione, con le loro scanalature gia' al loro posto, il loro aspetto banale e miracoloso di oggetto che non si puo' fare, solo lasciar arrivare.
Forse anche i bambini devono venire cosi', forse bisogna che sbuchino come sotto il cavolo, gia' fatti. Neri o gialli, con un loro carattere e geni che non sapremo mai, a dispetto dell'etichetta che avranno sopra. Bambini a sorpresa, come l'ovino kinder. Almeno per noi.
Stasera e' arrivata l'ennesima cattiva notizia, che ho preso con una certa sportivita'. Perche' e' brutta, ma fa parte delle cose che si possono gestire, non ci lascia in balia della fatalita'. Ci riporta nel terreno conosciuto dell'imponderabile controllato. Imponderabile come la vita, perche' si puo' far tutto nel modo giusto, ma sbagliare il senso, la sfumatura e quindi trovarsi con nulla in mano. Controllato perche' esistono passi successivi che si possono provare, non e' tutto in mano a una casualita' con cui ne' io ne' mio marito sappiamo confrontarci.
E' un problema, ma con delle interpretazioni possibili e realistiche, un esito che potra' essere positivo o negativo, ma prevedera' delle decisioni da prendere. Le scelte le sappiamo fare, non sappiamo lasciare che facciano noi. Se poi possiamo farle insieme mi sento al sicuro.
La cosa piu' importante che ha fatto lui per me e' stata dirmi che esistono due mondi. Uno, fuori dalla porta di casa nostra, in cui le regole le dettano anche gli altri, anche se non solo loro. La' si puo' solo combattere, resistere e provare a sconfiggere l'entropia. Poi esiste il mondo che comincia da questa porta e finisce con i muri del giardino, dove decidiamo soltanto noi. Qui on c'e' nessuno a cui dobbiamo rispondere, se non noi stessi. Non c'e' d lottare per essere amati, perche' lo siamo gia'.
Stasera penso a questo e c'e' una serenita' di fondo che niente, fuori da noi due, sa darmi. La sicurezza che, comunque vada, i pomodori matureranno, perche' qui la magia funziona e nessun pensiero crudele potra' venire a disturbare i loro sonni, o i miei.

giovedì 19 maggio 2011

Il richiamo del Bianconiglio

Stasera sono uscita dall'ufficio in lacrime. La guerra era finita, finita davvero, con uno di quei gesti ufficiali che sanciscono che non si puo' piu' tornare indietro. Diciamo che era appena stata aperta la crisi di Governo, da stasera il Paese va ufficialmente avanti senza di me. Mi resta da fare ordinaria amministrazione come durante il semestre bianco. 
Piangevo non per tristezza, non per rimpianto, nemmeno per ripensamento. Piangevo parlando al telefono con la mia mamma, perche' e' finito senza poesia un capitolo della mia vita che e' durato tanti anni e se ne apre uno nuovo in cui il lavoro dovra' avere per scelta un altro aspetto, un'altra forma e molta meno passione. Per certi versi era un addio alla giovinezza lavorativa, quella degli entusiasmi e del crederci fino in fondo, come se fossi arrivata tu con in tasca la ricetta per non far sembrare insalata le primule dieci giorni dopo che le hai comprate. Solo che se quel trucco esistesse l'avrebbero scoperto diverse generazioni fa. 
Camminavo verso la macchina, che rimane sempre sul fondo del parcheggio perche' non sono una persona mattiniera, anche se compenso restando finche' l'enorme spazio non resta vuoto, la mia piccola vettura con gli occhi da ranocchia che attende come il cocchio di Cenerentola gia' ritrasformato in zucca. 
Parlavo con mia mamma della profonda delusione di questa fine burocratica e asettica, di quanto mi sentissi da mesi una vera cretina, che non aveva capito che dai diamanti non nasce niente, in senso letterale. Dicevo che, anzi, non paga di aver seminato, scrutato la terra, innaffiato i germogli, ora mi stupivo pure di trovarmi davanti una gigantesca pianta carnivora che voleva mordermi un dito. Insomma, uno di quei momenti di sano autolesionismo a cui la mia povera mamma si e' ormai assuefatta, anche se un giorno mi mandera' a quel paese con un immenso effetto liberatorio che la purifichera' finalmente da tutte le malattie che purtroppo ha addosso. 
Mi guardavo i piedi, come al solito. Mio marito dice che ho il radar, perche' trovo sempre le monetine per terra. Il fatto non e' imputabile a uno spiccato spirito di osservazione, ma e' il retaggio della mia nota sindrome maniaco depressiva, la stessa che provoca l'ipocondria.
Ve lo raccontero' un'altra volta, ma da adolescente sono stata molto malata e, per un periodo, ho avuto paura dell'Aids. Cosa anche abbastanza normale, direte voi, non e' che sia un raffreddore. Peccato che io avessi molto timore di pungermi con una siringa lasciata per terra e che questo abbia significato per anni girare con gli anfibi anche in piena estate, far sdraiare prima di me la mia amica sulla sabbia al mare per assicurarmi che il telo non fosse posato su un ago, non sedermi al cinema a luci spente, togliermi letteralmente il primo strato di pelle con l'alcool ogni giorno per disinfettarmi da presunti contatti pericolosi. 
Insomma, anni di vita difficile che mi hanno lasciato il radar, ovvero il guardare costantemente e inconsciamente dove metto i piedi. Cosi' trovo le monetine, ma mi perdo il paesaggio. Cosa volete, poteva andare peggio, mi consente di fare l'indifferente e vivere abbastanza normalmente. Vi assicuro che era peggio spiegare alle persone perche' dovevano tenere chiusi i finestrini quando io ero in macchina, dal momento che una siringa colpita di taglio da una ruota poteva saltare dentro l'auto dal vetro aperto e pungermi. 
A un certo punto, pero', almeno per individuare la macchina, ho alzato gli occhi e li ho visti.
I coniglietti saltellavano su un piccolo pezzo di prato di un verde perfetto fra la fine del parcheggio e la strada trafficata, separata da un terrapieno. Erano tre o quattro, attenti ma non troppo sospettosi. Tutti marroni e con la forma esatta di un disegno di maestre a forma di coniglietto. Quei particolari coniglietti hanno il di sotto della coda bianca, cosa abbastanza paradossale calcolando che da li' escono i bisogni. A rigor di logica sarebbe stato piu' sensato farli tutti bianchi e li' sotto marroni. Invece no, sono al contrario, forse proprio per enfatizzare quel gran senso di compostezza e pulizia che emanano. Mi hanno osservata passare, voglio pensare che ormai mi conoscano e non mi considerino un pericolo, perche' li vedo spesso. Mi sono fermata e hanno drizzato le orecchie, che sono di mezza lunghezza, seduti sulle gambe posteriori. Poi si sono messi a quattro zampe e mostrandomi il sedere bianco sotto al codino corto si sono mossi a balzelli verso una radura. Non ci sono volpi ne' cacciatori nel parcheggio, quindi mi sono sembrati abbastanza soddisfatti. In natura penso che quel pezzetto bianco sia un po' come il centro di un bersaglio, il modo inventato dalla natura per fare in modo che i predatori li mirassero meglio ed evitare cosi' che il mondo si ritrovi ricoperto di coniglietti. Sono contenta, pero', che abbiano trovato un posto dove vivere sereni, ammiccandomi di tanto in tanto. La scena, pero', restava abbastanza surreale.
Voi capite che e' quasi piu' facile far credere alla persone che le siringhe possono passare dal finestrino piuttosto che convincerle che ci sono i coniglietti nel parcheggio di una multinazionale petrolifera, quindi non l'ho detto a nessuno. 
Pero' ho pensato che un giorno li seguiro' in mezzo alla radura, come in un romanzo di Carroll, per scoprire un mondo all'incontrario dove quello che qui su ha valore non ne ha. Allora smettero' di piangere e anche di parlare al telefono.
Oppure, ho pensato poi, forse non lo so, ma li ho gia' seguiti.

Il nocciolo del problema e' un nocciolo di ciliegia

Domandona del millennio: cosa conta nella vita?
Quando mi sono posta la questione del cambiamento nella mia vita, ovviamente la prima leva che ho pensato di muovere e' stata quella professionale. Hai sbagliato tutto nella vita? Cambia lavoro! E' la risposta piu' ovvia, quella che la societa' suggerisce. Mica con tutti i torti. In ufficio ci passo una media di dieci ore al giorno nei periodi tranquilli, due mesi fa ne facevo dodici ininterrotte perche' dovevo finire il documento e poi non e' servito a nulla. Ininterrotte senza pausa pranzo, senza caffe', senza uno sguardo a corriere.it, niente. Solo lavoro fitto. Quindi cambiare quello che fai nel cento per cento delle tue ore di veglia e' un'idea ragionevole.
Mi sono guardata in giro, ho mosso qualche pedina e, siccome sono sempre stata una bambina diligente, sono arrivate altre opportunita', dentro e fuori dalla mia azienda.
Il problema e' che il tempo fra aziende e lavoratori e' asimmetrico. A te chiedono  capacita' immediata di reagire, loro si prendono i mesi.
Nel frattempo sono successe delle cose.
Ho scoperto che mi faceva piacere pensare e che ero ancora capace di tradurre i pensieri in parole che rispecchiavano me e non la corporate identity di una multinazionale. Belle o brutte non lo so, ma mie, non negoziate con altre mille voci, non mediate da una costante epurazione di senso compiuto. Frasi da cui erano banditi i grandi mali del linguaggio aziendale: i pertanto, gli acciocche' (giuro, c'e' chi scrive acciocche'), l'aggettivo "specifico" e le best practices, normalmente pronunciate bestpratics. Discorsi che non avevano bisogno di essere resi seri e istituzionali da parole astruse o perifrasi agghiaccianti. Concetti che volevano essere tali, senza paura e senza mezze intenzioni.
E' fiorito il giardino, con il suo carico di piacevoli impegni e di idee, quelle che fanno dire a qualcuno in un libro che un giorno comprero', che per il momento ho solo sfogliato, che un giardiniere vive nel futuro. In effetti non riesco a guardare le piante senza pensare alle cassette che mettero' sugli angoli dei muri l'anno prossimo, al rinvaso che dovro' fare degli oleandri, che sono il doppio dello scorso anno e ormai scoppiano nelle loro conche. Ieri sera leggendo un manualone enciclopedico ho scoperto che il prezzemolo vuole l'ombra, a differenza delle altre aromatiche, quindi potro' riempire anche lo scaffale piu' basso dell'orto pensile. Ho ritrovato la gioia smarrita nell'inverno di osservare per mezz'ora da vicino le mie rose, che beneficiano dell'attenzione costante, e di scoprire un uovo di pidocchio prima che sulla stessa foglia ne spuntino cento. E' esploso di nuovo il rincosperno - il mio e quello del vicino - con quell'odore dolciastro che e' casa mia, senza dubbio. Quest'anno al mio giardino si e' aggiunto quello comune e la gioia dell'ennesima signora che ti ferma sulle scale per dirti quanto e' piu' bello tornare a casa con tutte quelle rose rosse che esplodono da quasi un mese sul muro del garage.
I gatti sono diventati sempre piu' amabili questa primavera. Forse perche' hanno smesso del tutto di considerarmi e sono belli da osservare, selvatici e indipendenti come tigrotti cresciuti male. Me l'ha detto anche la veterinaria quando sono andata a farli vaccinare. E' stata una lotta tenerli fermi, mentre miagolavano come se li stessimo scannando, sullo sfondo di un coro di dalmata e cani minori che si associavano alla passione dei due poveri cristi dalla sala d'aspetto. Come sono cambiati, mi ha detto. Soprattutto il grande, che conosco da sempre. E' diventato adulto e animale, dopo anni queruli da bambino a quattro zampe, dipendente dalla madre fittizia che ero io. Mi sono inorgoglita, mi e' sembrato di avere fatto di piu' nella vita garantendo la felicita' - attraverso una finestrella a bascula e un giardino - a due esseri che non hanno chiesto di venire al mondo, ne' di essere al mio fianco che diventando amministratore delegato di un'azienda.
Deve essere, nel piccolo, quello che si prova ad aver fatto il tuo come genitore, assicurando la prossima generazione di disgraziati a questo pianeta. Esagerato, ma mi sono sentita cosi'.
Arrivo al punto. Oggi ho fatto l'ennesimo colloquio finale, nella fighissima sede di una fighissima societa' di cacciatori di teste, che con una definizione cosi' uno di base dovrebbe scappare, invece in questo mondo storto si aspetta con trepidazione una loro chiamata.
Mi hanno detto quanto sono stata brava a passare decine di colloqui clone con gente clone, solo ogni volta un po' piu' importante.
Mi hanno detto quanto si aspettano da me, quanto attendono con ansia il mio impegno, il mio contributo, la mia voglia di fare.
Mi hanno parlato della bellezza di costruire la mia struttura e di mettere me stessa in un progetto. Che e' un foglio bianco.
Mi hanno chiesto dedizione e collaborazione e attenzione e un sacco di altre cose che finiscono in zione.
Io non riuscivo a pensare altro se non che non avevo abbastanza voglia. Che non ero la persona per loro. Che le cose che finiscono in zione da dare per soldi le avevo finite. Che volevo mettere tutta la mia capacita' di zione in gratuita' e bisogno di stare in comune. Pensavo che avrei dovuto cambiare casa, vedere meno le persone a cui voglio bene e i miei gatti, senza che questo risolvesse il mio problema di relazione con l'azienda, perche' questa avrebbe cambiato nome, ma non pelle o missione.
Non voglio smettere di lavorare. Non so lavorare per soldi, ma so lavorare per la dignita' del lavoro. Voglio che il lavoro sia la mia vita, ma non escluda la mia vita. Sono slogan, lo so, ma sento che devono diventare veri, anche se non so come. Mi hanno detto che hanno messo a punto il pacchetto, che presto mi faranno "la proposta". Puo' darsi che mi offrano molti soldi, mi promettano prestigio e indipendenza, mi facciano sentire importante dandomi benefici di molti tipi diversi. Spero di riuscire a mantenere il coraggio di sentire ancora quel no in fondo allo stomaco, quel senso di ingiustizia per me che ho provato oggi, a dispetto della tentazione sociale del non poter dire di no. E' vero che i treni passano una volta sola e che potrei pentirmi amaramente di questi pensieri. Potrebbe anche capitare che ancora una volta alla fine faccia la scelta che ci si aspetta da me, quella della brava bambina con i desideri sociali ben interiorizzati e l'ambizione sana a guidarla. Stasera non lo so.
Penso solo che quel miscuglio di desideri, paure e indecisioni che ho in fondo allo stomaco sia come il nocciolo di una ciliegia. Puoi sputarlo e far finta che sia un rifiuto. Puoi deglutirlo e buttarlo via con la cacca, dopo essertelo tenuto un po' in pancia. Puoi piantarlo per terra. Novantanove volte su cento non succede niente. Ma i ciliegi stanno qui a testimoniare che una volta almeno cresce una pianta.

martedì 17 maggio 2011

Un grande garden center chiamato citta'

Stasera meditavo sulla stupidita' dei venditori di piante. Non di tutti, ovviamente, di quelli che vendono fiori e arbusti come se fossero scarpe e lampadari.
La mia collega due settimane fa e' andata in un garden center della citta', di quelli belli grandi, con il marito. Occorre premettere che sia lei sia il marito sono sicuramente conoscitori di scarpe e lampadari - soprattutto se indegnamente costosi - ma non distinguono un geranio da un crisantemo. Cosa che in se' non e' mica una colpa. 
E' peggio, per dire, che la stessa collega e un altro convivente di ufficio, entrambi laureati, oggi fossero sinceramente convinti che la parola "cittadino" fosse invariabile e che l'unico significato di "cittadina" fosse "piccola citta'". L'ignoranza di base come male assoluto sta tornando per me un tema politico di attualita', ma questa e' un'altra storia e ne parliamo a parte. 
Dicevo, mica e' una colpa non conoscere le piante. Per questo ci sono i garden center, no? Posti dove dovrebbero lavorare se non appassionati, almeno esperti del tema. Gente che non si e' posta il problema di quale negozio aprire, se era meglio darsi alle scarpe o ai fiori. Voleva fare proprio quello. Nella mia logica allevare e vendere piante e' come fare il panettiere o l'edicolante da un lato, perche' esige abbastanza passione da alzarsi presto la mattina. E' come fare il medico o il veterinario dall'altro, perche' si gestiscono cose vive e, come tali, mortali, che occorre maneggiare con estrema cautela. 
Insomma, la mia collega e il marito vanno al garden center e dicono che vorrebbero riempire alcune balconnettes da ancorare ai davanzali. La mattina dopo tutta felice lei arriva in ufficio e mi dice che ora ha dei bellissimi fiori bianchi. Alcuni, profumatissimi, hanno grandi foglie molto lucide e verdi, gli altri sono piccoli e a stella, quasi come gelsomini (rincosperni). Il giorno successivo, con alla mano l'enciclopedia illustrata del giardinaggio, diamo un nome a quelle piante malcapitate. Il garden center le ha venduto gardenie e solenacee, da mettere nella stessa cassetta. 
Allora, io non sono una vera esperta di giardinaggio, sono una praticona. Faccio figura solo perche' la gente di media e' molto ignorante in materia. Ci sono pero' poche nozioni base su ognuna delle due tipologie di piante. Cose che sanno tutti. Le gardenie vogliono ombra, almeno nei climi caldi, poca acqua e sono sensibili al calcare dell'acqua di citta'. Le solenacee, lo dice anche il nome (anche se penso che in realta' sia un falso amico come nelle parole inglesi), sono piantine da sole, che all'ombra intristiscono. Vogliono poca acqua, e' vero, ma se ne fregano del calcare. Anzi, un po', a correggere il terreno, non lo disprezzano per niente. 
La coesistenza in una sola cassetta e' per lo meno improbabile. Se le solenacee prosperano piene di fiorellini per i raggi del pieno sole, le gardenie diventano tutte gialle e marroni. Viceversa, si avranno solenacee tristi tristi, fatte solo di foglie. Uno scherzo del destino vuole che l'esposizione della casa della mia collega - una sostanziale mezz'ombra irradiata pero' dal sole spietato del pomeriggio e non da quello dolce della mattina fa avvizzire entrambe le piante.
Allora, mi chiedo io: non si puo' ritirare la licenza al garden center? In primis per aver rovinato la vita a una pletora di povere piantine innocenti. In secondo luogo, per aver creato due poveri infelici che, d'ora in poi, si diranno negati per le piante e non ne compreranno mai piu'. Immaginate quanto sarebbero andati orgogliosi di davanzali ricoperti di surfinie e gerani rigogliosi. Pensate che avevano persi o predisposto l'impianto di irrigazione per quella coltivazione che, non per colpa loro, ha cosi' poche chances di avere successo.
La morale e' semplice e banale: per fare un mestiere non ci vuole solo l'opportunita' economica, ci vuole amore, dedizione e responsabilita'. 
Spero che ci pensino i miei concittadini che sceglieranno il direttore di un grande garden center che si chiama citta' fra due settimane. 

Tre fragole in salsa bollywood, per favore

Ieri sera ho visto il mio nuovo film preferito. Il titolo e' "My name is Khan" e mi sento di consigliarlo a tutti.
Lo consiglio agli amici intellettuali di sinistra, perche' e' un film di Bollywood, che dopo The Millionaire va di gran moda. L'ha diretto un grande regista indiano, figlio di una dinastia di registi - in India molto funziona per dinastie. L'attore principale - assolutamente impressionante nel ruolo di Khan, che non e' un personaggio facile - e' affidato a uno che a me sembra brutto, ma che e' una specie di Brad Pitt del subcontinente. Sospetto che le ragioni dell'amore degli intellettuali per la nuova Bollywood siano due. La prima e' che, dopo decenni di cinema radical chic intimista francese, penso che per loro sia stato un sollievo andare al cinema e persino divertirsi, uscire gioiosi accennando qualche passo di danza e facendo le facce. Il secondo motivo e' che nessuno dei miei amici intellettuali di sinistra e' mai stato in un cinema di Jaipur, esperienza che molto fa riflettere sulla genialita' assoluta del genere umano, ma conferma anche senza ombra di dubbio che il cinema non e' una roba su cui farsi dei gran pipponi mentali e magari pure un paio di esami all'Universita' (ebbene si', li ho fatti, ma giuro che non facevano parte del piano di studi facoltativo). E' guardare una storia, caderci dentro, partecipare con urla e schiamazzi mentre i bambini ti colano il gelato sulle ginocchia, i loro genitori producono un fratellino due file piu' indietro e le signore sgranano i piselli in prima fila.
Comunque My name is Khan ha dentro di se' molte ragioni intellettuali e di sinistra che forniscono adeguata giustificazione morale. Parla abbastanza male degli Stati Uniti pur rispettandone i miti fondativi (se hai voglia di lavorare e' la terra delle opportunita'), e' ambientato nel periodo del grande cambio dall'epoca di Bush a quella del mio amico ortolano Obama, e' un elogio dell'onesta', del candore e del bene che trionfano grazie alla grande stampa watchdog (si', ho fatto anche un esame di giornalismo, se e' per questo. Devo crocifiggermi per il mio passato?), ma anche una spietata critica a ignoranza e qualunquismo.
Non meno importante, e' ambientato per buona parte in una San Francisco strepitosa.
My name is Khan piacera' anche agli amici pop, perche' e' una grande e meravigliosa storia d'amore, fatta di malattia, che racconta come si possa amare non solo una persona diversa, ma addirittura qualcuno che e' considerato un disabile. Il morbo che e' parte dell'identita' di Khan e' una forma di autismo che impedisce di leggere i sentimenti altrui, una specie di malattia dell'empatia. Una cosa che di per se' sembra precludere a priori una storia d'amore (come se poi i cosiddetti normali, soprattutto se maschi, fossero normalmente dotati di grandi capacita' di comprensione delle altrui emozioni) e invece no. I buoni sentimenti traboccano, si riversano sulla donna amata, ma anche su madri, fratelli e cognate, nonne nere incontrate per caso in cittadine dell'America profonda, interi caseggiati di Calcutta. Solo che non sono fatti di parole - perche' Khan non le sa dire - ma di fatti. Khan aggiusta quasi tutto, perche' la sua clamorosa intelligenza strana e' capace di capire i segreti di ogni meccanismo meccanico. Solo che poi aggiusta anche i destini.
Questo film si puo' consigliare anche a tutti quelli che hanno voglia di avventure, ma non di avventure sterili, in cui tutti si menano e uccidono apparentemente senza una valida ragione. Va bene per chi ha voglia di avventure politiche, di quelle che cambiano la storia, anche se nel piccolo. E' un film politico nel suo bisogno di concretezza. Un film operaio di parrucchiere e agenti di commercio, mica di principi e principesse. Di modesti maestri di scuola disoccupati che si rivelano grandi narratori, al massimo di professoresse fragili di piccole universita'. E' un film sulle religioni, sui sentimenti altruistici che possono stimolare e sulle catastrofi che piu' frequentemente possono generare.
Insomma, sono contenta perche' ho fatto un pepe (diminutivo di pepetrolio, coniato da mio marito che mi chiede alla sera:"hai scritto un pepe?") intero su un film e non ho detto nulla della trama, perche' odio quelli che ti dicono devi vedere questo film e poi te lo raccontano cosi' nei particolari che ti passa qualunque curiosita'. Fate cosi', guardatelo e poi rileggete quello che ho scritto, cosi' vediamo se ho azzeccato tutte le categorie cineaste.
Altre novita' della giornata: al momento ho tre fragole in maturazione. Calcolando che l'unica prodotta fino ad ora l'ho dovuta dividere a meta' col coniuge e che ero piu' interessata alla riuscita estetica dell'oggetto che al sapore nutro grandi aspettative.
Seconda novita': la mia citta', almeno in questo primo turno, ha sostenuto la mia voglia di cambiamento, con un risultato commovente e inaspettato.
Da domani cominciano due settimane molto dure, in cui mi aspetto di tutto da quelli che hanno governato fino a ora. Pero' quando cambiava il vento sulla banderuola del tetto della casa di Mary Poppins ci stava un bel po'. Speriamo che i dirigenti nazionali, da entrambe le parti, ci lascino in pace a discutere del futuro di questo posto, nell'orto che c'e' qui. Che la citta' non diventi il laboratorio di un bel niente. Che non si teorizzi un domani di effetti valanga e di grandi decisioni. Che si prenda il voto per quello che e': un dialogo fra una serie di persone che cercano una strada migliore per stare insieme. In questo momento, in politica come in ogni cosa, non mi interessano le macroanalisi e i macrodisegni.
Mi importa che le cose piccole maturino in pace.
Come le mie fragole.

Inventario degli odori felici

Il Profumo di Suskind e' un bel libro. Un po' paraculo, se mi consentite il termine. Un'ottima idea, un'ambientazione che attira (chissa' perche' il medioevo affascina tanto le persone?), una scrittura facile di chi ha buona penna e sa di averla, un po' di sangue e sensualita' splatter che non guastano mai. Il narrare attraverso gli odori la vertigine di un'ossessione che si svela mano a mano al lettore ha un certo fascino.
L'unica cosa e' che io non trovo niente di inquietante negli odori. Mi sforzo, ma non riesco ad associare il profumo a qualcosa di negativo.
Eccovi quindi il mio inventario degli odori felici, partendo ovviamente dal giardino in questo splendido maggio di sole e caldino perfetti.
Gia' sotto la pergola si sentono il rincosperno, un po' dolciastro, e il gelsomino (che ho il sospetto sia un caprifoglio giallo, ma questo lo studiero' il prossimo week end). Sanno di cene a bere birra densa ridendo come matti per scenette da stanlio e olio, di colazioni pigre di domenica, con la mia amica in maglietta e mutande che mangia i biscotti dietetici che sembrano truciolato dell'ikea, di chiacchiere sulla vita fatte per il gusto delle parole che rotolano in bocca, con i fili del ragionamento resi piu' lisci dall'alcool. La gatta piccola cosi' piccola che passa per i buchi del cannicciato ha quell'odore, cosi' come le corse dietro uno scarafaggio della stessa gatta fattasi grande e coraggiosa. E' il profumo di una lanterna verde regalata per compensare una faticosissima serata a progettare una cucina, che brilla nella luce fioca che ondeggia di piante.
Uscendo dalla pergola si incontra il profumo di una rosa banale, una rosa rosa che non avrei mai piantato, ma che ho ereditato e che mi riempie di soddisfazione con i suoi mazzetti fitti, con i petali persi sul pavimento come dietro una sposa nei giorni di vento.
Da destra si insinuano gli odori densi degli odori da cucina. La menta li copre tutti, intensa come il mohito di un aperitivo di tanti anni fa, in un bar antico vicino al palazzo del mio primo lavoro. Sembrava un destino. Sono arrivata in questa citta' e il mio primo ufficio stava in un edificio storico, con un nome strano, "delle stelline". Mi hanno spiegato subito che era un posto di suore e che le stelline erano le bambine, le orfanelle esposte e raccolte attraverso una ruota che ancora si vede sulla parete. Anch'io ero sperduta, anch'io ero nuova a quel mondo e avevo bisogno di qualcuno - preferibilmente non una suora - che mi badasse e accogliesse. In quel bar vicino conoscevo i colleghi che surrogavano gli amici che non avevo ancora. Mi convincevo mi piacessero anche se non era vero, perche' volevo che la ruota girasse per poter essere dentro. La menta era la via di accesso a quel desiderio cosi' intenso che adesso mi fa sorridere.
Il timo, la melissa, il rosmarino, la salvia dalle foglie grandi non sanno di niente, bisogna toccarli per sentirsi sulle mani un odore che e' quasi un gusto.
I pomodori pizzicano il naso, come le foglie pizzicano le mani. Sanno di Corsica, di serate umide fuori dalla grande casa che chiamerei della liberta' se non fosse quanto di piu' lontano esista dal partito che usurpa questo nome, con l'accappatoio addosso a raccogliere frutti grossi e gonfi su cui passeggiano insetti buoni per grigliate senza carne, almeno per me.
Vicino all'orto stanno le rose che ho scelto, quelle che sanno del maggio della mia infanzia, quelle raccolte nei giardini un po' storte e spampanate, che non so nemmeno se sia italiano. Le rose delle passeggiate verso la Pieve, io atea inebriata dalle mani piene di fiori delle donne del mio paese, che camminavano in una festa della rinascita dopo l'inverno che inneggiava a Maria come a Persefone che ritorna dall'Ade sulla terra di sua madre (forse la storia piu' bella di tutte le storie mai raccontate). Bianche e rosa sui bordi, piante non sane ma combattive, capaci di foglie tempestate di muffe antiche e increspate dalla cattiva salute che fioriscono lente, ma hanno boccioli che sembrano non smettere mai di allargarsi in cento mille petali che frusciano nell'aria ferma, lanciando un profumo che e' un grido piu' che un canto, che e' la disperazione della vita breve vissuta con tutta l'intensita' che un destino su uno stelo possa concedere.
Poco piu' in la', la rosa violetta che sa di limone, discreta e misteriosa, l'ultima che ho comprato domenica scorsa e che lunedi' mi sono trovata in ufficio. Qualcuno ne aveva raccolto un bocciolo in un posto lontano da li' e aveva pensato di portarla in quello stanzone per godersela un po'. Ed era proprio lei, figlia di una pianta gemella alla mia, quella che avevo scelto fra mille in una grande fiera, perche' era diversa fra tutte. Il caso e' un artista.
A fianco ha il limone a rafforzarla nel suo odorare soave e leggero, che chiude in una danza, in un sospiro, in una ninnananna per le serate senza sonno l'inventario dei miei odori felici. O almeno di quelli del mio giardino.

domenica 15 maggio 2011

Cielo livido, cuore no

Nelle giornate con la luce fredda persino il giardino sembra infido. Guardi il retro delle foglie e cerchi di capire cosa sono quelle strane palline bianche che sembrano cristalli, forse uova di un parassita che dovrai uccidere tuo malgrado. Ti chiedi se mangerai mai un pomodoro, dato che le piante alte, bellissime e orgogliose continuano a fiorire, ma non vedi nessuna bacca verde che possa maturare un giorno. Ti preoccupi per le zucchine, perche' qualcuno ti ha detto che fra poco sara' finita la stagione e tu ti sei appena abituata a mangiare quelle che hai appena tagliato, con la goccia di acqua alla clorofilla che esce dal punto in cui l'hai staccata, sana, sanissima senza pesticidi perche' le piante sono larghe giuste, non toccano terra, hanno aria che circola fra le foglie e prendono il sole felici.
Ti illudi che il cuore del fiore bianco a fianco abbia la forma di un limone in miniatura. La luce e' livida sulla rosa livida, quella senza una traccia di colore caldo, che non sai ancora se amera' il terreno un po' acido in cui l'hai messa. La messa a dimora delle rose e' l'unico brivido di paura che ti danno quegli arbusti meravigliosi, perche' se si trovano male ti abbandonano da un momento all'altro. Hanno questo periodo diffidente in cui osservano come le curi, annusano l'aria per capire se la posizione e' propizia, vogliono acqua ma non troppa se no manciscono subito, sono refrattarie ai concimi. Se decidono che non va bene, che cosi' non possono essere felici, si suicidano. Cosi', all'improvviso, senza rimedio. Ne hai persa una, lo scorso anno. Una rosa meravigliosa, dai mille petali verdi e rosa e boccioli corti, rotondi. Non ti ha voluta, si e' lasciata morire. La pensi ancora. Se invece superano questa fase kamikaze diventano una certezza - perche' le rose vivono a lungo, come le persone, ma non invecchiano come gli umani, perche' si rinnovano ogni anno con getti che sono un inno alla scoperta del mondo.
In queste giornate di sole non convinto pensi ai tuoi insuccessi, al ribes e alla mora che non hanno fatto i fiori e di cui non potrai mangiare i frutti. Che dovrai attendere fino al prossimo anno. Alle olive fitte sui rami della scorsa stagione, di cui sono promessa i minuscoli fiori a nuvola che hanno invaso i rami e poi il pavimento in questi giorni, che furono abbattute ad agosto dalla grandinata del secolo, quella che buco' ogni foglia del giardino e costrinse a una potatura feroce da cui non tutti si sono ripresi bene. 
Pur nell'incertezza della giornata, qualcuno procede a grandi passi verso il suo momento d'oro: gli oleandri sbocciano, con colori imprevisti. Il primo lo scorso anno era di un rosa tenue, quest'anno e' bianco con appena una traccia di color albicocca. A costo di dire una castroneria botanica, pensi si sia adattato ai suoi vicini, che sono tutti bianchi come la neve. Almeno finche' da loro non sbocceranno petali rosa. Fiorisce l'ortensia, con i suoi agglomerati di fiorellini ancora indecisi se esser fiore o foglia. Bella pianta, quella, quando non e' oggetto della perversione di chi la vuole rendere una decorazione minimalista e la ama secca e in vaso invece che sui rami, dove fiorisce imperterrita per mesi. 

Ieri sera, a cena dalla mia amica, guardavo le grandi bellissime vasche di pietra che ha sul ballatoio della sua casa. Le immaginavo piene di ortensie, rododendri e azalee, tutte bianche, azzurre o lilla come un pezzo di cielo, come le nuvole che le piacciono tanto. Tutte amanti delle ombre di quello spazio coperto, che io non posso permettermi perche' l'angolo risparmiato dal sole del giardino e' piccolissimo e artificiale, creato dall'umidita' della pergola e dal dondolo che fa da schermo ai raggi del pomeriggio. 
Poi ho visto le ruspe e i camion del suo bambino con i capelli piu' lisci e lucidi del mondo, che aveva scavato le fondamenta di un castello immaginario in uno spazio vuoto di terra. Ho pensato che occorre farlo crescere un po', prima che le vasche possano ospitare fiori fitti. Bisogna non togliere a un bambino di citta' il suo cumulo di terra di cui ingurgitare lo sporco sotto le piccole unghie, la sensazione che da' soltanto l'affondare con le mani nell'umido buono e fresco dove, se si e' fortunati, nuota un lombrico. Quello poi, e' un bambino di mare, con i geni del marinaio che e' suo nonno e che e' - dentro - la sua mamma inquieta. E' un bambino che ama la sabbia e le onde. Per questo ha bisogno di crearle anche nei vasi di un terrazzo di citta'. Ieri sera, per la prima volta da quando l'ho visto nascere, si e' lasciato un po' conoscere da me e forse io da lui. Abbiamo giocato a nascondino e mi ha raccontato una storia prima di dormire (io non sono tanto capace). Mi ha ricordato una bambina che mi insegnava il francese qualche anno fa a Parigi, perche' io non conoscevo tante parole necessarie al suo mondo: parole di pappe, di giochi, di asilo che all'universita' non avevo imparato. 
Mi ha ricordato una cosa bella dei bambini: che ti spiegano come avere cura di loro. Sanno quando non sei capace e ti guidano. Se ti nascondi in un posto troppo facile a nascondino e ti trovano subito, non pensano che sei un cretino, ti dicono: "adesso rigiochiamo e tu potresti nasconderti in un posto molto difficile". Con delicatezza, come se fosse solo una proposta e non una necessita', un'ovvieta' data dalla tua incompetenza.
Tutte le cose pulite sono cosi', siano piante, animali, relazioni. Tendono all'armonia e riconoscono la buona fede, cosi' quando sbagli e' chiaro che non l'hai fatto apposta. Non ti mettono alla prova per vedere se capisci da solo, per deludersi se non lo fai. Non fanno il contrario di quello che vogliono per verificare la tua sincerita' e la tua fedelta'. Danno per scontato che tu stia facendo del tuo meglio e di doverti aiutare perche' tu riesca.
Le cose pulite ti sanno imperfetto, quindi sorridono e fanno del loro meglio per migliorarti. 
Oggi e' giornata di elezioni, in citta'. Voglio pensare che questa luce grigia sia l'indecisione che sempre precede un cambiamento. Che invece di decisioni arzigogolate, sondaggi e statistiche oggi conti la faccia di un candidato per bene a fronte di una donna di plastica. Voglio pensare che la gente decida come deciderebbe il bambino della mia amica, da cosina pulita. 

Ora vado a votare.

   

sabato 14 maggio 2011

Dai, citta', cambiamo insieme

Dai, citta' stanca.
Citta' sbagliata, che ha smarrito il senso del progresso dentro un aperitivo. Citta' con i palazzi che si chiamano come aziende e che non e' piu' capace di creare lavoro. Citta' della moda che non sa vedere l'eleganza di una ragazza rom che allunga una mano al semaforo. Citta' sfibrata come i capelli troppo biondi di una commessa, chiusa in un cortile e in un appartamento di lusso a parlarsi addosso. 
Dai, citta' di periferie tiepide e piccoli balconi con un geranio proteso a sorridere al mattino, citta' di vecchietti che bonificano a forza di zappe del leroy merlin orti rubati a cortili di fabbriche dismesse. 
Dai, citta' di finte sanita' eccellenti, di pediatri non trovati alla domenica e corse a un pronto soccorso dove si ritrovano disperazioni e paure rese tutte uguali dalla mancanza di alternative, citta' di un consultorio laico e per tutti che sembra un'oasi in mezzo ad arroganze cattoliche monolitiche che hanno il coraggio di chiamare "per la vita". 
Citta' di uffici che diventano case per persone come me, che se esco alle cinque, un giorno, mi sembra di aver fatto part time. 
Dai, citta' che dove l'aveva messa la sinistra, quella fatta di gente come noi, che all'improvviso si e' materializzata in una piazza nelle ultime settimane? Citta' di tassisti fascisti incontrati la sera, ma fascisti sul serio, che citano le bonifiche di Mussolini e ti fanno venire voglia di scendere, se solo non fossi cosi' stanca.
Dai, citta' bellissima che non sa di esserlo, di angoli di rigore e dolcezza infinita, di momenti di verita' assoluta, di biciclette gialle in bell'ordine e di famigliole stupite di utilizzarle. 
Citta' che mi commuove perche' non mi aspettavo che mi inglobasse, che non mi aspettavo che mi cambiasse. Citta' cui adesso tocca farsi cambiare da me, dal pakistano cui stasera ho dato una moneta e che mi ha dato un bel sorriso, dalla pioggia che lava tutto lo schifo  delle facce di plastica, dai mille condomini movimentisti come il mio, forse persino da un improbabile candidato a sindaco. 
Dai, citta', cambiamo insieme. E' la primavera giusta.

mercoledì 11 maggio 2011

Ho fatto un incubo

Ho fatto un incubo. C'era la guerra e io e mio marito avevamo deciso che avremmo fatto un attentato al dittatore, lo avremmo ucciso e cosi' la guerra sarebbe finita e noi saremmo potuti scappare lontano ed essere felici.
Pianificavamo il blitz con grande cura, sapendo che ne andava della nostra vita e di quella di tante altre persone ma dovevamo farlo, era l'unica soluzione. 
In un attimo stavamo sparando a questa persona, che non ho visto che genere avesse, penso fosse un uomo perche' mi ero addormentata leggendo dell'omicidio di Rajid Gandhi. 
Colpivamo, lui cadeva. Ci giravamo per scappare, ma proprio in quel momento una guardia faceva partire un proiettile e mio marito piombava a terra, morto. Svegliata senza respiro, mi sono nascosta sotto il braccio del cadavere, che senza sapere di essere stato ucciso in sogno dormiva beato e si e' spostato per prendermi sotto l'ala. 
Non ci vuole Freud per interpretare le mie elucubrazioni notturne. Con le mani che sanno di menta appena raccolta, pero', sembra tutto gia' lontano. 
Dimenticavo: razionalita' 1 ipocondria 0. Anche questa volta non era quella volta. Quella noiosa di razionalita' dichiara che e' una vittoria di Pirro e che lei gia' lo sapeva. Io sono semplicemente felice di poter prendere in braccio i gatti e annusare il delirio di profumi che e' il giardino in questo momento senza un retropensiero angosciato. Finche' dura, me la godo.

martedì 10 maggio 2011

Ho fatto un sogno

Ho fatto un sogno in cui il mio condominio riusciva a farsi dare un sacco di soldi dal Comune per diventare un modello innovativo di convivenza e felicita' urbana.
Il mio condominio e' fatto di due palazzine. In quella che da' sulla strada - che e' una strada quieta e caotica allo stesso tempo, con un sacco di ape car parcheggiati la sera e la gente di tutti i colori che sta a chiacchierare sulla soglia delle case, o alle finestre del piano terra - ci sono due negozi vuoti.
Fra le due palazzine c'e' un cortile, con due garage ricavati dalle vecchie officine che una volta stavano dove ora c'e' il loft. Sopra ai due garage, ovviamente, c'e' un tetto.
Ho sognato che quei tetti diventavano orti. Uno si poteva chiudere d'inverno per farne una serra e produrre i pomodori e le fragole nella brutta stagione, l'altro invece restava scoperto. Ranuncoli da taglio e rose intervallavano gli ortaggi. Al centro del cortile c'era un orto girasole, una grande ruota con su dei vassoi piatti che giravano piano per seguire il sole. La ruota era collegata all'impianto fotovoltaico che abbiamo - per davvero - sul tetto delle palazzine.
Le vecchiette potevano coltivare l'orto girevole, perche' non occorreva ne' salire le scale, ne' chinarsi per raccogliere i frutti, bastava girare la ruota e la verdura che dovevi innaffiare arrivava proprio al tuo livello.
C'erano anche insalate verticali, che crescevano sui muri in apposite strutture e profonde vasche con carote e patate su tutti i ballatoi dei pianerottoli. Il pesco e l'albicocco del cortile abitavano grandi vasi (conche, con le c aspirate, direbbe la mia vicina, perche' lei e' toscana) che non facevano rimpiangere loro la piena terra. Facevano molto piu' del frutto singolo che esibiscono oggi. Negli angoli piu' ombreggiati stavano frutti di bosco e funghi. C'erano anche le galline, che razzolavano nel pollaio ricavato dal vecchio bagno del magazzino. Nessuno le uccideva, le allevavamo per le uova. Il gallo era cosi' felice che cantava alle 8 per non svegliarci troppo presto. Non avevamo conigli solo perche' non volevamo assassinarli per mangiarli.
I negozi sulla strada erano gestiti da noi: in uno vendevamo gli esuberi della nostra produzione, dopo averla distribuita equamente agli inquilini, secondo i bisogni e le possibilita' economiche di ogni famiglia. Meno a chi poteva comperare cibo biologico nei negozi di lusso, di piu' a chi tirava avanti con una piccola pensione o aveva un lavoro precario. I fiori, invece, erano dati a tutti in quantita', perche' la bellezza non e' una questione di soldi.
L'altro negozio era la sede dell'associazione che avevamo costituito per  disseminare il nostro modo di stare insieme. Era anche il posto dove accoglievamo i visitatori, organizzavamo piccoli corsi di giardinaggio urbano e visite guidate per le scuole della zona. Facevamo pagare solo se signore snob e gli intellettuali snob. Tanto dopo che avevano capito che l'innaffiatoio pesa e che le rose bucano le dita con le spine non venivano piu'.
La cosa e' che eravamo tutti piu' felici. Certo, litigavamo perche' c'era sempre qualcuno che non voleva mettere i fagiolini perche' sua moglie era allergica o che dissotterrava di nascosto una patata. Sempre meno, pero'. Ogni giorno c'erano piu' condomini che volevano fare le guide all'orto o che si offrivano per un turno in negozio. Alcune signore si erano messe a fare la conserva di pomodoro nel cortile del loft, per non dover buttare via tutti quei bei cuori di bue che erano maturati tutti insieme. Gli uomini, il sabato, riparavano insieme i tralicci delle melanzane, che venivano sempre giu'.
Non avevamo firmato un patto, un accordo. Non avevamo stilato un regolamento ne' stabilito dei ruoli. Eravamo solo condomini che ogni giorno decidevano senza decidere di vivere meglio. La differenziazione del lavoro e' una cosa sana, nessuno di noi si sentiva un contadino, un commerciante, un educatore. Era solo una parte contenta della nostra vita.
Non eravamo diventati tutti belli, ricchi e chic. C'era ancora il rastone del quarto piano, la famiglia con i fiorellini di plastica legati al balcone e il cagnolino grazioso, la signora che al primo sole diventava marrone come il cuoio. C'era quella con la voce stridula e il figlio adolescente, a cui degli stronzi avevano scritto gay con lo spray fuori dal portone. C'era la sarta elegante e dritta come un fuso e la signora che assomiglia tanto a mia nonna. C'era il disegnatore di fumetti e l'uomo di fatica, il manager in carriera e sua moglie che ogni tanto si sbagliava e sorrideva.
C'ero io, che chiamavano Biancaneve per il modo che avevo di fermarmi a osservare i fiori mentre li innaffiavo, per come ero felice quando i girasoli risollevavano le foglie dopo avere avuto molta sete.
Ho fatto questo sogno e forse lo rifaro' ancora per vedere come va avanti.
Il fatto e' che non l'ho sognato da sola e quindi forse diventera' vero.

lunedì 9 maggio 2011

Diario ipocondriaco

La giornata di un'ipocondriaca in fase focalizzata - quando, cioe', ha gia' individuato un dolorino che e' chiaro segno di una malattia incurabile e non sta passando il proprio corpo allo scanner per trovarne uno - si riassume in un'immagine che penso vi ricordiate tutti. Ce l'avete presente Pollon, il cartone animato che ha fatto appassionare tutte le bambine italiane degli anni ottanta, o quantomeno una, alla mitologia greca? Ecco, Pollon ogni tanto doveva fare una cosa e le comparivano sulle spalle due piccole se stessa. Una vestita da angioletto, che le dava buoni consigli e la incitava a fare il bene, l'altra vestita di rosso come un diavoletto, che suggeriva cattiverie. Lasciate perdere il chiaro riferimento all'immaginario cattolico in un ambiente ovviamente politeista come l'Olimpo.
Io, quando ho paura, sono Pollon.
Sulla spalla sinistra (quella che mi sta piu' simpatica) sta seduta, depressa e combattiva, la mia razionalita', che analizza con spietata correttezza che cosa ha generato la malattia mortale. La spiegazione e' spesso non particolarmente sofisticata. Nella crisi in corso, ad esempio, e' semplicissima. Sono nel mezzo di un cambiamento che non so governare, per la prima volta faccio fatica ad alzarmi per andare al lavoro e il mio corpo mi dice che e' venuta l'ora di aprire un capitolo nuovo, che pero' non dipende solo da me e che, quindi, mi terrorizza.
L'epifenomeno, la tipologia di malattia mortale scelta, deriva diettamente dalla mia vicina di casa, a cui voglio un gran bene, che contro lo stesso tumore con cui si flagella la mia mente sta combattendo davvero, con incoscente coraggio. La vedo, la faccina della mia razionalita', quasi imbarazzata da queste spiegazioni lapalissiane, dall'ovvieta' della sua tesi, che e' poi quella di mio marito: se hai un cancro, e' un cancro al buon senso. Me la ripete di continuo, la argomenta per convincermi, mi fa domande retoriche attingendo al passato, alle svariate malattie che hanno avuto, nella mia storia, una genesi simile a questa. Io sarei tentata di essere d'accordo.
Il problema e' quella disgraziata che sta seduta sulla mia spalla destra (la conservazione, la paralisi, lo stare immobile nella paura). Lei sta spesso zitta, ma non perche' stia ascoltando l'altra. Sta sentendo il dolorino. Lo sta valutando, per capire quanto e' cresciuto ("quanto e' riuscita a farlo crescere", commenta la razionalita' stizzita). Lo sta comparando rispetto al passato, per affermare con sicurezza che no, cosi' non e' mai stato ("L'ha gia' detto anche la volta dell'osteosarcoma, non ti ricordi?", mi fa notare r.). Sta ricordando ogni racconto di malattia che ha immaganizzato, ricorrendo a quella memoria per le disgrazie altrui che stupisce mio marito perche' conosco i sintomi piu' strani di ogni malanno. Lei e' cosi'. Sacrifica un sacco di neuroni perche' ogni volta che sente raccontare una disgrazia sanitaria non puo' fare a meno di mandarla a mente, per vederla riaffiorare perfettamente accurata al momento opportuno, appena il dolorino giusto lo consente ("pensa quante bellissime poesie avresti imparato a quest'ora, se lei non rubasse tutto lo spazio", sospira la razionalita').
La paura lascia parlare, non interrompe. Poi alla fine, mentre l'altra beve esausta un bicchiere d'acqua, sussurra piano: "E se questa volta, invece, fosse proprio quella in cui c'e' qualcosa di serio?".
All'altra va tutto di traverso e si ricomincia da capo, finche' quattro pastiglioni di Armovita non stordiscono entrambe, e me con loro.
Questa e' una giornata ipocondriaca. Un giornata in cui sono successe delle cose carine. Ho piantato la rosa struggente comprata ieri alla fiera dei fiori. Ho avuto la conferma che quelle piantine che ho trovato appoggiate nei vasi del cortile non erano state lasciate li' per essere portate in casa piu' tardi, erano state messe li' apposta per tutti, perche' io le piantassi in mezzo alle altre che ingentiliscono lo spazio comune. Il condomino anonimo ha contribuito a quel progetto di verde collettivo che forse aveva osteggiato in passato. La rivoluzione comincia cosi'. Mio marito mi ha accompagnato dalla dottoressa, con uno di quei gesti d'amore che mi fanno pensare che devo avere accumulato molti meriti nella mia vita precedente.
Purtroppo, pero', e' una giornata ipocondriaca, un'altra giornata sprecata in cui Pollon poteva diventare un po' piu' dea, invece e' rimasta una bambina.

sabato 7 maggio 2011

Mia suocera Indira

Sto leggendo l'ennesimo libro sull'India. Ormai sono anni che ne leggo. Romanzi indiani di scrittori di tutte le comunita', saggi sulle culture di quel popolo complicato, che gia' chiamare popolo e' strano perche' la nazionalita' e' un concetto quanto meno astratto per quei miliardi di personaggi diversi, biografie dei suoi personaggi illustri, che danno un senso nuovo alla parola coraggio, o forse sono solo esempi di straordinaria follia.
Questa parla di Sonia Maino, che sposa quasi per sbaglio un ragazzo incontrato in Inghilterra di nome Rajid e si ritrova come suocera Indira Gandhi, la terribile signora con il ciuffo bianco, quella che incupisce i sogni per sei mesi dopo aver letto "I bambini della mezzanotte" di Rushdi.
L'India fa apparire tutto assurdo, qualunque paragone non regge. La tragedia, la felicita', la democrazia assumono significati imprevedibili quando li applichi a quelle dimensione, a quelle moltitudini, a quella poverta', a quella complicazione.
Una volta ho letto che Mussolini aveva affermato che governare l'Italia non era impossibile, era inutile. Che smidollato! Allora Nehru cosa avrebbe dovuto dire?
Com'e' possibile che abbiamo problemi in un straccio di paesino graziato da un clima semiperfetto, appoggiato su mari luccicanti, a meta' fra uno dei Continenti piu' ricchi e pieni di benessere del mondo - l'Europa - e quello dov'e' nato tutto, l'Africa?
Della diversita' culturale fra nord e sud ne vogliamo parlare? Cosa c'e', di cosi' diverso? L'avete mai visto un sikh rispetto a uno shadu indu'? Un medico di Delhi - con la faccia di uno che imita l'espressione che crede avessero gli inglesi cento anni fa - a fianco di una contadina in sari spersa in mezzo alle compagne o di un ragazzo all'uscita di un cinema con il telefonino all'orecchio e la moto?
Sto dicendo cose molto banali, ma e' impossibile non pensare che se ce la fanno loro, a stare insieme e a sentirsi una Nazione, noi dovremmo prendere tutti i simpatici ragazzotti con le camicie verdi e mandarli in gita d'istruzione laggiu', con permanenza minima vent'anni, per vedere se si mettono a posto il cervello.
Se ce la fanno loro, con le loro stragi periodiche che sembrano subito dimenticate, perche' far tremila morti in India e' un attimo, tremila persone le trovi su un solo autobus.
Una volta Shankar, l'autista dell'Ambassador che ci accompagnava in giro per l'India, ci ha chiesto se ci spiaceva fermarci un secondo in una piazzola dove riposava un gruppo di camionisti. Prendevano il te', ma mica in un Autogrill. C'era una pentolina d'acqua su un fuoco improvvisato, con tante persone sedute sui talloni intorno. Guardavano l'autostrada, che in India e' un spettacolo in se', una cosa cosi' incredibile che potresti fare il viaggio solo per quella, per vedere passare la gente a piedi con le gerle, i suv, i carretti e gli elefanti. Shankar prima faceva il camionista anche lui, poi aveva fatto carriera, guidava le macchine dei turisti biondi e bianchi come noi. Credo che volesse mostrarci ai suoi amici, esibirci come status symbol, dato che eravamo sorridente, lo chiamavamo Shankar - ji in segno di rispetto ed eravamo chiaramente nelle sue mani per non perderci in un mercato o per evitare che un cammello ci calpestasse sulla strada.
Infatti appena lo abbiamo lasciato una mucca gigantesca mi ha fatto ettolitri di pipi' su un piede e mio marito si e' fatto infinocchiare da un sedicente santone. Ma queste sono altre storie.
I camionisti non parlavano inglese. Mi hanno cercato uno sgabello perche' io sui talloni faccio fatica a starci ore come loro. Mi hanno messo un bicchierino di te' in mano. Poi hanno ripreso a chiacchierare in indi, credo. Ci sono migliaia di lingue in India.
Quando siamo risaliti in macchina ho chiesto a Shankar di cosa stessero parlando. Del piu' e del meno, mi ha risposto. Sai, fra poco ci sono le elezioni e preoccupa l'opposizione a Sonia Gandhi e al Partito del Congresso. I musulmani dell'Uttar Pradesh eccetera.
I camionisti stavano parlando di politica. Politica nazionale. Erano di una poverta' che solo in India poteva sembrare non radicale, semplicemente perche' c'e' sempre qualcuno piu' povero di te. Erano sporchi, sfruttati e sottopagati. Seduti sotto un caldo torrido in dicembre - pieno inverno anche da loro - che poteva solo peggiorare fino al diluvio del monsone. Si sono interrotti solo un attimo per guardare questa persona candida e un po' spersa che il loro ex collega con i capelli impomatati e l'aria di chi crede che - nei limiti della tua casta - se vuoi migliorare la tua vita puoi farlo aveva portato li'. Poi hanno ripreso il loro discorso perche' era piu' importante.
Ho scoperto che gli indiani sono grandi appassionati di democrazia. Trovano incredibile che qualcuno voglia il loro parere su come governarli e, di conseguenza, si impegnano  parecchio per dare le indicazioni giuste.
Penso a cosa debba pensare Sonia se ogni tanto viene in Italia a trovare i suoi parenti. Non penso abbia dubbi sulla scelta che ha fatto tanti anni fa, nonostante il dolore che ha contraddistinto la sua vita.
Di questo sto leggendo oggi, sdraiata sulle sdraiette in giardino. Di Sonia del torinese, nuora di Indira Gandhi.
Penso all'unico Paese dove vorrei tanto tornare. Ho sognato l'India. Poi ci sono andata e ho avuto paura. Venti giorni di puro terrore, pochissimi minuti di vera rilassatezza in mezzo all'inquietudine di quella differenza radicale, di quel posto in cui non sei mai al riparo dalla morte, dalla malattia, dal rischio. Anche con tutti i tuoi soldi e il tuo biglietto di ritorno in tasca, la sensazione e' che quel Paese possa comunque decidere di ingurgitarti e digerirti. Se lo fa, non c'e' ambasciata che ti possa recuperare, non c'e' familiare che ti possa cercare. Non resta che affidarsi al fatalismo di quei milioni di dei, a quella spensieratezza della gente che non puo' farsi paranoie, perche' la realta' offre gia' abbastanza motivi di preoccupazione per inventarsene altri.
L'India e' uno dei posti dove ho provato la massima felicita' della mia vita. Fa tanto mito anni settanta, fa tanto fricchettone di terza generazione. Fa tanto Samuele Bersani di quando era giovane e ironico, si', l'India e la piadina romagnola. Ma.
L'ebrezza di essere nessuno in mezzo a una massa umana straordinariamente ottimista. Il sapere che tu sei nulla nel flusso dell'umanita', un nulla destinato a tornare per l'eternita'. La serenita' della reincarnazione, dell'attribuire un'anima alle mucche, ai fiori e alle scimmie. Vedere chiaramente che se solo gliela riconosci, e' palese che ce l'hanno davvero.
L'India ha dato molto al mio giardino. Nessun albero, nessuna pianta. Niente di quello che cresce la' sopporterebbe il secco - totalmente relativo - di questo clima tutto sommato da Mediterraneo.
Ha pero' dato l'anima e l'intelligenza agli animali e agli altri esseri viventi che lo popolano, quel sospetto di fondo che dentro ai miei gatti alberghino Gandhi e Gesu'.
Quella certezza che nelle rose che sono figlie di quelle del fosso della campagna in cui sono nata ci sia un po' dell'Arcisa e delle altre vecchiette con cui sedeva nelle sere d'estate.
Il dubbio che ci sia qualcosa che non vediamo in tutto quello che vediamo. L'India mi ha regalato un tempo circolare in cui non riesco a credere nel frastuono del lunedi' - venerdi', ma nella quiete del mio giardino, mentre ascolto le piante crescere, si'.

Sessant'anni di matrimonio. E un innaffiatoio.

Tra gli infiniti vantaggi che ti da' l'avere piante e animali c'e' ovviamente la socializzazione condominiale. Va be', il nostro e' un condominio un po' particolare, in cui la gente tende naturalmente alla comune. Nel pianerottolo sopra al mio tutti hanno la porta aperta. C'e' gente di ogni tipo, di tutte le eta' e sono convinti che sia normale cosi'. Sembra di stare un po' in quel sud da cui provengono molti inquilini: qualche urlo, molte finestre aperte e pasta al forno che suona il campanello la domenica. 
Qui l'amministratore di condominio non ha nessuna autorita', perche' si decide tutto nelle assemblee informali - seguitissime soprattutto dalle signore piu' anziane che le preferiscono alla tv - anche se nessuno sa bene cosa siano ne' che valore legale possano avere. 
Quelli che negli altri condomini sarebbero inquilini di pregio - manager urbanizzati dei loft costruiti a piano terra, dove c'erano i magazzini - qui vengono guardati con diffidenza, perche' non condividono lo spirito del luogo, si fanno i fatti loro, chiamano addirittura l'amministratore quando sono invasi dagli scarafaggi, invece di rivolgersi al consigliere condominiale, che visto che esce la ditta la fa passare per tutti gli appartamenti. Perche' ovviamente ha molte - se non tutte - le chiavi di casa.
Non serve precisare che ha anche le nostre. Noi, che siamo quelli dei gatti. Io, che sono quella delle piante. 
I gatti si incaricano di show quotidiani a beneficio di tutti quelli che hanno il balcone che da' sul giardino, inseguendosi come acrobati del circo, saltando da un tetto all'altro con sommo dispetto dei gatti dei balconi e, soprattutto, degli sparuti, minuscoli cagnolini delle altre case. Lo fanno apposta, gli infami, a ribadire la vastita' del loro territorio e della loro buona sorte. Noi siamo quelli dei gatti, con un sorriso. Questo e' gia' un lasciapassare. La gente che ha i gatti non puo' essere infida. 
Io, in piu', sono quella del giardino. Gia' da prima mi vedevano sempre fuori, a ispezionare una rosa, a soccorrere un gelsomino che si protendeva senza trovare un appoggio, a travasare qualche immane glicine con l'aria di una non proprio abituata ai lavori di fatica. Oppure con la scopa in mano a spazzar foglie, io che non ho mai sentito il bisogno di togliere la polvere dal pavimento di casa. 
Poi, il ponte del 17 marzo, festa dell'Italia unita, abbiamo deciso di piantumare il cortile condominiale. E' stato un week end bellissimo, che vale una puntata da solo quindi ve lo raccontero' un'altra volta. Da allora sono la giardiniera ufficiale del condominio, incaricata unica delle innaffiature e della gestione dei vegetali, che includono un pesco e un albicocco dotati ognuno di un frutto. 
La sera arrivo e scendo a innaffiare se serve. Qualcuno mi fa spesso trovare l'innaffiatoio pieno, cosi' mi risparmio la prima fatica. Parlo con tutti. La gente rientra dal lavoro, mi trova li' e con ognuno si scambia una parola, si organizza una missione per il sabato - all'ortomercato, alla coop, a una fiera dei fiori, si fa compagnia un momento a una vecchietta.
Stasera mi e' passato davanti un signore anziano, che portava la carta al cassonetto della differenziata, a fianco dell'oleandro condominiale. Mi ha salutata, l'ho salutato. 
Ho chiesto come va.
Mi ha risposto si va avanti, da vecchi.
Ma no, da persone in gamba, ho risposto.
E' rientrato e ha salito le scale.
Poi e' sceso di nuovo.
"Dicevo, si tira avanti, da anziani. Abbiamo festeggiato il sessantesimo di matrimonio con mio moglie, tre settimane fa. Sa, ci siam sposati giovani, quindi son gia' sessanta."
Si e' girato e ha di nuovo preso le scale.
Era tornato indietro solo per dirmi questa cosa preziosa, ci aveva pensato, si era dispiaciuto di non avermelo detto cosi' aveva rifatto le scale, una cosa che sicuramente gli era costata fatica. Ci aveva messo un po', Tanto io ero li' a innaffiare. Chissa' quando gli sarebbe capitata l'occasione di dirlo a qualcuno, sua moglie lo sapeva gia'. 
Mi sono complimentata sinceramente.
Sono quei momenti che salvano una giornata.