mercoledì 29 giugno 2011

Una serata di molte domande

Testa piena di domande, stasera. 
Perche' le more e il ribes crescono rigogliosi in giardino, con quell'aria soddisfatta che hanno le piante quando sono nel luogo giusto per loro, al sole ma un po' riparate dal mezzogiorno, come si addice a creature da margine di bosco, quando l'acqua non e' ne' troppa ne' poca, quando non ci sono oidio e ruggine a fare il solletico con tutta quella peluria di fungo, quando hanno il vaso abbastanza grande per stare comode, non troppo enorme per perdersi. 
Perche' nonostante questo non hanno fatto un fiore ne' un frutto? A vederli non si direbbe nemmeno che sia nella loro natura farli, tanto sono pacifici e nemmeno un po' in imbarazzo. Li guardo con espressione interrogativa e loro mi rispondono sfoderando foglie vezzose e lisce come guance di quindicenni.
Daro' loro un inverno di tempo, in fondo le ho piantate solo questa primavera, ma poi faremo i conti.
Seconda domanda: che cos'ha la salvia? Perche' ha le foglie basse all'improvviso? Una pianta modestissima, che in mesi di conoscenza non mi ha mai dato un pensiero, giusto qualche foglia da friggere per far piacere al mio amico che ha la ricetta di sua mamma per cucinarla. 
Adesso ha le foglie all'ingiu', piu' la sera che la mattina, come se avesse sete. Ma io la innaffio, mai troppo perche' e' una pianta mediterranea, giusto, altrimenti annega? 
Eppure ha questo portamento infelice che mi rattrista. L'ho messa un po' piu' all'ombra sotto l'oleandro grande, per vedere se si rimette, ma ho paura che mi muoia e sarebbe un peccato. 
Mi ricorda l'inizio della primavera, una giornata calda al mercato sul Naviglio, dove c'erano quelle splendide rose e mio suocero che aveva voglia di comprarmene una, come faceva mio zio con le scatoline di latta delle caramelle quando ero piccola e lui, senza figli, veniva a prendersi la sua ora d'infanzia mentre mia zia andava a messa a incontrare le amiche. 
Ultima domanda. 
Perche' le ragazze fanno discorsi da filmetto rosa con potenziali fidanzati mentre mangiano sushi in ristorantini all'aperto di una bella via alberata del centro? Perche' dicono che loro hanno i valori, la trasparenza, la lealta' e si dipingono come piacerebbero alle loro amiche, non a un maschio di trent'anni che non puo' che annoiarsi a morte, a sentire quelle spose modello che fanno la check list a voce alta, per assicurarsi di non restare zitelle?
Cosa volete che gli importi se siete colleghe perfette, se il vostro sbaglio maggiore e' fare il powerpoint al posto di quello sfigato che avete come stagista, perche' lo sapete che cosi' non imparera' mai, ma cosa ci volete fare, voi siete autonome e fate prima e meglio a far da sole? 
Non vedete lo sguardo che si spegne quando gli dite quante amicizie avete conservato al paese, in Puglia, perche', anche se siete lontane, quando c'e' bisogno ci siete sempre e gli altri possono contare su di voi? Facebook, poi, lo usate solo perche' nei nuovi media ci lavorate, mica vi piace veramente.
Se c'e' qualcosa di bello nell'aver perso l'adolescenza e' il non sentire piu' il bisogno di essere quello che raccontano le riviste, poter essere cattive ragazze un po' con il canino appuntito, un po' velenose, acide e lunatiche. Poter ammettere   l'invidia che vena il cervello come quel filo di cellulite che appesantisce le gambe, lasciarsi impazzire per un libro idiota o per un film poco colto, non dover giustificare ogni debolezza. 
Dirsi "sai che c'e', mondo, prendimi cosi', perche' la recita e' finita e il pubblico, che sarei io, e' abbastanza soddisfatto da non lasciare la sala". 
Invece c'e' tutto questo sforzo e questo trucco sulla faccia, davanti a un sushi d'estate, in una bellissima serata, che non so spiegare.
Oggi mi hanno fatto due complimenti.
Un amico mi ha detto che sono superficiale. 
Calcolando che mi sento pesante come il piombo, in questo momento, mi ha fatto un gran piacere. E' una bella cosa da dirmi, gli ho sorriso. Lo so, ha risposto.
Due amici, poi, mi hanno scritto che so pensare, o che almeno ci provo.
Altro gran bel regalo, per un'apprendista giardiniera cosi' piena di domande senza risposta. 

sabato 25 giugno 2011

Notte in citta'

Case che non dormono, clima di citta'. 
Grida sgraziate dal terzo piano, dove poverta' e ignoranza combattono per calpestare dignita'. 
Malattie nascoste al piano di sopra, sconfitte con una risata di giorno, paura che gela le ossa solo al buio, in un gemito sul soffitto.
Signore che scendono dal quarto piano per indagare il destino di un photus, con le ciabatte e la vestaglia a fiori, le chiavi che tintinnano in una mano, ottantatre anni e ancora cucire a macchina, per pagare la parrucchiera e sentirsi vivi.
Fighetti da loft che sputano sentenze e poi si vergognano quando passano nel cortile comune, cosi' inadatti alla socialita' semplice di un condominio da fare compassione.
Luci da tante finestre stanche, in alcune si fara' rumorosamente l'amore, perche' e' sabato. Sempre che il bambino si addormenti, che e' gia' mezzanotte ed e' ancora sveglio come un grillo.
Lotte feroci di gatti che si contendono un territorio infinito, perdita d'occhio di tetti e fabbriche che ancora traspirano, dopo vent'anni di inattivita', il sudore degli uomini. 
Palazzoni che crescono veloci, per appartamenti gia' tutti comprati. Case basse che si rattrappiscono nell'ombra, che hanno paura si morire.
Zanzare che si trattengono a fianco delle orecchie, annusano l'autan e se ne vanno. Lasciano una scia di rumore che e' tutta vita, mentre i lombrichi scavano grotte nei vasi che sembra quasi di sentirli. Un giorno, forse, ritorneranno le lucciole. 
Musica da un ristorante ecuadoregno o da una casa ecuadoregna, perche' ci sono poche regole chiare e una di queste e' che si lavora come schiavi tutta la settimana, ma al sabato sera si canta e si balla.
Modem e connessioni vecchio stile per un adolescente frustrato che cerca il porno sul web usando il computer della sua grassa madre, che cerca di dormire e gli dice spegni. Nemmeno le seghe davanti allo schermo ci si puo' fare, in una casa cosi' piccola. Per forza poi mi scrivono che sono una checca sulla saracinesca di fronte a casa. 
Con un padre che nemmeno lo accompagna a pulire quella scritta.
Cagnolini di migranti, emblema del pregiudizio. Ho pensato che il ragazzo dal sorriso candido che abita di fronte fosse un badante, che il barboncino fosse di un'anziana signora.
Non e' cosi', e' solo il suo cane. Mi ha fatto strano, come se un ragazzo del bangladesh non potesse avere un cane da compagnia. Come se quello fosse un accessorio che non si possono permettere quelli che devono costruirsi qui una vita, come se avessero diritto solo a conquistarsi l'essenziale. Che pensiero stupido, che una persona non possa volere un cane solo perche' non parla italiano. 
Rose che si aprono perfette, pomodori che maturano, lampade che illuminano pavimenti che si raffreddano. 
Una sirena che passa lontana. L'altra notte un ragazzo di vent'anni ha ammazzato due ragazzi di vent'anni, in questa citta'. Poi si e' fatto accompagnare dai suoi genitori alla caserma dei carabinieri. Ha detto che non sa perche' l'ha fatto ne' come l'ha fatto. Forse e' stato un brutto sogno, ci sveglieremo fra poco, deve avergli detto sua madre.
Luci soffuse e nessuna paura, niente di male puo' accadere in questo terrazzo che e' un nido fra le case, che tutti possono godere. 
Una civetta ripete il suo suono monotono e familiare, un rumore di campagna fra i molti che si sentono, se solo si sta a sentire lo strato sotto i televisori. 
Se tutti gli uomini sparissero, questa citta' sarebbe altrettanto viva. 
Se tutti gli uomini sapessero di essere uguali ai fiori, ai gatti, agli uccelli, questa citta' sarebbe in pace.

venerdì 24 giugno 2011

In onore delle mie rose

Lo sapete che non so fare le foto. Le faccio con il telefonino, mi vengono tutte sfocate perche' vado troppo vicina, non sono brava a trovare il giusto angolo o punto di vista e i colori non mi sembrano mai quelli veri delle cose.
Pero' oggi era una giornata fotografica, per la luce che colpiva il giardino verso il tramonto, fatta di sole ancora caldo e di ombre nette. 
E quello che c'era nel giardino doveva rimanere a consolare l'inverno. 
Le rose, tutte, o sbocciatissime o ancora chiuse, come se si dessero il cambio per non lasciarmi mai senza fiori. 
Le ho contate, oggi, oltre a fotografarle. Sono otto. Sono tutte cosi' diverse fra loro che se arrivasse un extraterrestre non direbbe mai che sono la stessa pianta. Quella arancio chiaro, che ho ereditato con il giardino, sembra un albero contorto, tutta legno e foglie bianche di oidio che non se ne va, ma e' stata la prima a fiorire quest'anno, e ora mi ha regalato ben due nuove rose, che mi piacciono per riconoscenza verso la pianta, anche se sono un po' strane e contorte. 
La Serenissima di Barni, quella lilla, nella seconda fioritura assomiglia alla rosa a cinque petali rossa e gialla che viene dalla casa sul cavalcavia, che, sopresa, dopo sei anni di conoscenza ha deciso di rivelarmi di essere profumata. Io giuro che le rose le annuso quasi prima di guardarle, ma lei non aveva mai saputo di niente. Invece stasera sapeva di fresco e di buono, come una ragazza bella appena uscita dalla doccia, come una pubblicita' ambientata a Parigi di una colonia costosa. 
Le rose dell'orto sono al quinto giro consecutivo, cariche di giganteschi fiori a macchie bianche e rosa che sembra che cadano in avanti per il peso come una signora con le tette rifatte. Opulente, quasi troppo ingioiellate, ma cosi' vitali e allegre e prorompenti che commuovono e si fanno perdonare anche il fogliame che si sciupa con un soffio di vento. 
La rosa del fosso, invece, fa un solo fiore per volta e lo medita a lungo, non si apre mai, ma poi sembra una peonia gigante all'odore di limone e si fa perdonare la lentezza esasperante. 
Al contrario si comporta la rosa nana, che nel suo piccolo e' tutto un movimento, uno spuntare di nuove foglie, un maturare di minuscole spine e boccioli dai mille petali, danneggiati solo da un rosa troppo rosa che tradisce il fatto di essede stata comprata in saldo all'Esselunga.
Infine, le altre, quelle che attendono il loro turno per dire la loro in questo concerto che non ha bisogno di direttore se ne stanno li' come una promessa, alla faccia delle gardenie che non fioriscono e sono ormai passate nel registro delle piante antipatiche e altezzose, imparagonabili alle mie vecchie amiche, che basta un po' di sole e non ti deludono mai.




E poi, un giorno, maturo' tutto

Mio marito e' in montagna a camminare, a "fare due passi", come dice lui, fino a tremila metri con i suoi colleghi derelitti (non capiro' mai il piacere della fatica, mi spiace). 
Ho chiamato i miei amici, mi ha risposto lui, spaparanzato nella camera della nave  che sta per salpare da Marsiglia, mentre lei si sta facendo fare un massaggio nella spa. 
Volevo sapere se avevano notizie della mia amica di Parigi, che doveva passare di qui domani. Non le avevano, quindi ho mandato un messaggio a lei, che mi ha risposto felice da un matrimonio in Toscana (dove peraltro si trova anche la mia collega). 
Infine, aspetto che mi chiami la mia meta' femminile (detta anche mia moglie, per via di una foto che ci ritrae il giorno del mio matrimonio, con me in mezzo fra lei e il consorte, mentre tengo la mano a entrambi con espressione estatica, da completezza assoluta). Lei si trova a Catania, perche' il suo fidanzato questo week end lavorava li'.
Quindi? Quindi io sto a casa, stamattina sono stata dal dentista che mi ha massacrata con estremo garbo (e' un ragazzo d'oro, si e' preoccupato moltissimo dell'anestesia, di spiegarmi per filo e per segno cosa stava facendo nella mia bocca spalancata in modo molto poco grazioso, quando e come avrei avvertito una vibrazione e un leggero grattare. Solo che dieci minuti dopo essere uscita dall'ambulatorio mi sembrava di avere preso una randellata sulla mascella). Ho fatto un po' di spesa, sono stata alla Coldiretti a prendere dei bastoncini per legare la mora e una bustina di astri rosa da piantare sul balcone piccolo, nella cassetta dei non ti scordar di me che anche per quest'anno hanno finito il loro azzurrissimo ciclo. 
Ho letto i giornali, sempre piu' basita nello scoprire la pochezza della classe dirigente del Paese e sempre piu' rattristata dall'ennesimo omicidio di solitudine e squallore che e' accaduto nella mia citta'. 
Ho fatto due chiacchiere con i vicini e adesso attendo il fresco per innaffiare. 
Sto buttando via la mia vita? Sono malata di passivita' e mi pentiro' in punto di morte di tutti i week end passati qui invece di partire? Pensero' che rose e gatti e sole sul dondolo non valevano quello che ho perso? 
Non lo so, questa volta faccio la vestale, metto a mollo il riso integrale per accoglierli tutti qui domani sera e mi godo questa solitudine che fa sembrare lunghissime le giornate, mentre di solito mi scappano sotto le mani ed e' gia' ora di andare a dormire. 
Intanto e' maturato tutto.
Ieri sera sono tornata a casa e l'orto era particolarmente provato dal caldo. Quasi per caso ho scostato una foglia accartocciata ed eccolo li', il primo pomodoro rosso fuoco. Aspettero' domani sera, con tutti qui, per tagliarlo, perche' ho bisogno di un rito per quel frutto meraviglioso. 
Oppure no, lo tagliero' stasera per me sola, dente permettendo, per celebrare la mia solitudine verde, che mi sembra l'unica cosa capace di entusiasmarmi in questo momento in cui tutti vogliono darmi un lavoro. Una cosa che dovrebbe farmi felice, perche' e' un po' come raccogliere i frutti di quello che ho fatto in tutti questi anni, invece mi mette ansia per questa impossibilita' di scegliere con lo stomaco. Perche' quello tace, ha entusiasmi brevi, sembra non sapere come dirmi che nessuna di quelle scelte e' giusta. 
Che solo fermarmi un po', fare l'orto e un bambino, viaggiare e guardare cose belle o stare in casa e creare cose belle e' l'unica vera direzione da prendere.

mercoledì 22 giugno 2011

Mi annoio da sola (la bellezza delle parole esatte)

Sapete cosa mi piace del giardinaggio? Cosa mi fa proprio impazzire? 
L'uso della lingua italiana. 
Conduco una impopolare, noiosissima e vecchissima (nel senso di "da antica maniaca") battaglia contro la semplificazione del gergo aziendale, l'uso forzato di un lessico di duecento parole, spesso infarcito di termini di moda effimera, oppure che fanno tanto anglosassone. 
Mi vergogno, ma spesso mi trovo a giudicare le persone sulla base di quanti termini usano e, soprattutto, se lo fanno in modo appropriato.
Non e' colpa mia: Biancamaria, quella che mi ha regalato in punto di morte la bellezza della parola crepuscolo, mi ha plasmato la testa fin da piccola con il suo uso preciso della lingua.
Notate bene, non si tratta di essere andati o meno a scuola. Quasi il contrario. Molte persone che hanno un'eccellente proprieta' di linguaggio - non importa se in dialetto o in italiano - hanno fatto la terza elementare e hanno lavorato nei campi tutta la vita. Proprio per questo rispettano le parole. 
E' chiaro, loro lo capiscono, che avere avuto l'opportunita' di imparare a esprimersi in modo ricco e articolato e' una fortuna, ma non e' quello che conta davvero.
Si tratta di essere persone corrette o pretenziose. L'esattezza del parlare non e'  aver mangiato un vocabolario, penso che si possa avere un linguaggio bellissimo anche senza conoscere la denominazione di trenta sfumature di azzurro. Si tratta di avere rispetto delle parole, non usarle a caso, scegliere quelle che si padroneggiano bene e metterle nel modo giusto nella frase. Senza prenderle in prestito gia' fatte. Senza buttarle li' un po' come viene. Senza voler dimostrare di avere piu' lessico di quello che si puo' gestire.
Parlare al di sopra delle proprie possibilita' e' un segno di insicurezza, ma e' anche disprezzo della lingua e assenza di curiosita'. Perche' le parole si possono imparare tutta la vita, mica solo a scuola. Basta ascoltare con il cervello acceso e non credere che bastino due o tre termini in inglese buttati in mezzo a un discorso per dimostrare competenza o, peggio, cultura.
Ho finito il pippone, mi sono annoiata da sola. 
Fra i posti in cui si possono imparare piu' parole precise, ricordarne alcune un po' desuete, incamerare piu' sinonimi, ci sono i cataloghi di giardinaggio. 
Leggo a caso: "Specie fra le piu' diffuse per il fiore reciso grazie alla sua rusticita', alla molteplicita' delle forme dei fiori, alla varieta' incomparabile dei colori. Si adatta a tutti i tipi di terreno, ma predilige quelli fertili, ben drenati, leggeri...". Pagina a fianco: "Specie annuale che produce cespugli robusti destinati a ornare le aiuole dei giardini, grazie alla sua infaticabile fioritura. Esige abbondanti innaffiature, specie nel periodo estivo particolarmente siccitoso. E' specie suscettibile di vegetare anche nei luoghi ombreggiati". 
Sono le descrizioni dell'astro e della balsamina del catalogo Ingegnoli, che ho trovato a casa ieri sera. Un serbatoio di bellezza linguistica e di rispetto per le cose attraverso i loro nomi.
So che a Biancamaria sarebbe piaciuto, come piace a me.  

P.S. Mentre scrivo la gatta piccola sta mangiando il catalogo, distrattamente appoggiato alla sua portata di fianco dell'ipad...ma lei si esprime a fusa e non puo' capire, quindi come sempre la perdono.

martedì 21 giugno 2011

L'ottimismo e' un velo di flatting

Uff, che settimana! 
Ve l'ho scritto che nel frattempo, mentre la mia ipotesi di cambio di vita e giardino con le gambe dormiva, s'e' mossa la mia azienda, proponendomi un nuovo lavoro? 
Promesse di rito, contiamo tutti su di te, sei la candidata ideale per questo ruolo delicato e annessi e connessi. Per il momento semplicemente doppio incarico, il mio mestiere amato, odiato, ormai non piu' tollerato e l'incognita di questa attivita' nuova e con ambizioni apparentemente piu' ridotte, in realta' una buona opportunita' per incidere in modo piu' concreto su una popolazione, quella interna, che ha le dimensioni di un capoluogo di provincia di medie dimensioni. 
Insomma, e' cominciato un capitolo nuovo, come e' cominciato un caldo serio da giugno ormai a piu' di meta'. 
Il giardino non l'ha ancora capito. I pomodori si piegano sotto il peso di frutti giganteschi, pesanti e ancora verdissimi. Le rose fioriscono per l'ennesima volta (ma non c'era la quiescenza estiva, amici giardinieri?), il cortile del condominio si lecca le ferite dell'umidita', con un attacco di macchia nera che ha deturpato le rose e un esercito di afidi a cui, secondo il parere autorevole di mia mamma, si e' aggiunta una retroguardia di ragnetto rosso. 
In compenso sono invasa da una rucola amarissima, figlia di pochi semi che mi ha dato mio suocero, mentre i peperoni sono ormai grossi e morbidi. Sabato ho cucinato, un po' titubante, il primo e ho apprezzato l'attesa che mi e' costata crescerlo, perche' la pasta, quella di farro comprata al mercato della terra, era straordinaria.
Ultimo avvenimento: ho scoperto che so dare l'impregnante a un tavolino e mi manca solo l'ultima mano per proteggere la mia preziosa ruota di macina indiana, che sta in fondo alla pergola con vasi e lanterne sopra, ma che aveva cominciato a soffrire troppo l'effetto delle secchiate d'acqua sul legno.
Non che sia stato difficile, dipingere il tavolo, ma ho scoperto di saperlo fare e questo apre un mondo possibile. 
Oppure non ne apre nessuno, ma da' soddisfazione piu' delle lodi interessate di un capo, piu' delle tecniche di seduzione (bel libro, quello, quando De Carlo scriveva ancora invece di fare lo scrittore) dell'interlocuzione aziendale. Quasi come un sindaco che trasmette su un maxischermo in piazza la prima seduta del suo consiglio comunale. 
E' una settimana che si vela di ottimismo su un fondo amaro che ormai non si toglie piu'. 
Brilla come un velo di flatting, che non cancella smancate e macchie del legno, ma vi riflette sopra una luce diversa e protegge da intemperie che torneranno, a dispetto di questo sole che al momento consola.

sabato 18 giugno 2011

Dov'eravamo nascosti tutti, cercatori di bellezza?


Al Mercato della Terra ci sono i palloncini colorati di Slow Food e la gente che suona per i bambini.
Ci sono parecchi cani con l'espressione paziente e simpatica e tante persone che raccolgono biglietti da visita per aumentare l'elenco degli ordini del proprio g.a.s.
Al Mercato della Terra ci sono le tende color crema e il carrettino che vende i sorbetti. C'è il clima delle fiere di paese se non fosse che sui banchetti delle fiere di paese oggi ci sono solo magliette cinesi e cannoli siciliani.
Utili, le magliette cinesi, non sono mica qui a dire che non me le metto, per carità. Detesto avere la percezione di spendere molto denaro per cose poco importanti, per vestiti che quest'anno mi sembrano bellissimi e attendo con ansia che siano asciutti quando sono da lavare e l'anno prossimo mi sembreranno corti - stretti - lunghi - strani. Però alla sessantesima sciarpa a cinque euro con i ponpon d'acciaio in fondo mi stufo di guardare.
Veniamo ai cannoli siciliani, anche quelli sono un'invenzione sacrosanta, però non si capisce cosa ci facciano in massa in questo clima che non li valorizza per niente, troppo umido e poco elegante, che li fa sembrare unti e stantii e rende di plastica i canditi.
Al Mercato della Terra conoscono tutti Erbaviola, addirittura con il suo vero nome, e ho finalmente potuto comperare il suo celeberrimo libro sull'orto, da cui scoprirò che faccio sicuramente un sacco di idiozie e che i miei vegetali crescono solo perché hanno compassione di me.
Ho scoperto che esiste un sito che si chiama Ortiurbani che vende cose fatte apposta per l'orto in cassetta, ma che organizza anche corsi, così prima o poi farò il compost invece di buttare tutte quelle foglie e quelle puliture di zucchine.
Ho preso il biglietto di un signore che alleva polli e galline come si deve, così si è tranquilli per le uova e forse (ma ci devo riflettere, perché mi fa un po' senso anche se così è meno aberrante e più naturale) ogni tanto mangiare un po' di carne.
Si assaggia uno strepitoso pane di segale che mia suocera ha comprato perché fatto col lievito madre, che è una sua recente passione, si guardano le erbacee perenni, non se ne compra nessuna perché si ha ancora un pudore e la malva me la vado a prendere nei campi, si sorride a tutti e ci si sente a casa.
La domanda resta sempre quella: dove eravamo, o dov'ero io?
Perché sono stata sola tanto tempo con la mia voglia di bellezza, sentendomi anormale perché non ce la facevo più a essere circondata dal brutto?
Vi ho cominciato più volte a raccontare di com'è nato il giardino, mi sono sempre interrotta perché c'erano cose più importanti e urgenti da dire. Dovete sapere che prima di abitare qui vivevo a un'ora di tram piu' metro - o a quaranta minuti di motorino quando non c'era la neve - dal lavoro. Che avevo passato quattro anni a osservarmi da fuori, mentre aspettavo lo scambio di mezzi in uno spartitraffico battuto da piogge apocalittiche, alle nove di sera, prima di spingere per entrare in un tram pieno di persone bagnate e tristi come me. Scendevo in uno stradone con una sopraelevata, salivo all'ottavo piano e cercavo di tenere vivo un terrazzino di due metri per uno affacciato sul traffico, che avevo trasformato in una microscopica giungla capace di sorprendermi per la sua resistenza incredibili. Molte delle piante del giardino sono cresciute là, così come il gatto grande.
Poi a un certo punto avevo smesso di guardarmi marcire e avevo deciso che avevo voglia di bellezza, di facilità, di luce e di bianco. Di foglie su cui passare le dita per non ritrovarle nere di polvere.
Mio marito mi aveva guardato perplesso, lui amava e ama ancora quella casetta sul cavalcavia. Non aveva obiettato e da lì era cominciata la ricerca che ci ha portato qui, in questo piccolo parco sospeso dove non si sente passare una macchina e dove la luna appare più vicina.
Sembrava, però, una necessità strana, una cosa un po' anarcoide e incongrua, voler vivere in città e comprare una casa più lontana dal centro, con ottanta metri quadri di spese condominiali a cielo aperto.
Tutti quelli a cui lo dicevamo si chiedevano come mai con la stessa cifra non avessimo cercato un appartamento di lusso in una via più centrale, perché vivere in un quartiere anche un po' malfamato per amore di una pergola e di un pavimento caldo di sole su cui far sdraiare i gatti non sembrava una scelta scontata.
Al Mercato della Terra avrebbero capito tutti, nessuno avrebbe fatto la domanda.
Come se all'improvviso tutti avessero visto le cose con gli stessi occhi, che, per coincidenza, sono anche i miei.
Questo senso di comunità e di assonanza con il mondo è la sensazione più nuova di questa primavera ormai estate, è la piazza arancione delle amministrative, dei referendum, è questa mattina di mercato, è la stanchezza, il basta e la voglia di cambiare che leggo persino in ufficio negli occhi dei colleghi che si sono stancati di fare la guerra per dare un senso alla giornata e quindi gli scappa da ridere di fronte a chi cerca di alimentare una conflittualità e un'arroganza che a nessuno viene più naturale.
Non lo so se è una moda, se anche lo è meglio questa che quella che si incontra in Via della Spiga.
Non so se è la crisi economica, se è quella avrà avuto almeno un effetto positivo.
Non so se sarà il paradigma dei prossimi vent'anni, dopo gli ultimi venti di grigiore e opacità, se sarà la rovina del Paese o se ci sarà da vivere meglio per tutti.
So che sono in pace con i desideri degli altri perché mi assomigliano, per la prima volta da tanto. Che mi piace il tempo in cui vivo, per la sua capacità di fare uscire dalla rassegnazione all'improvviso o di registrare di colpo un cambiamento che forse era nell'aria da molto.
Penso che a trent'anni e poco piu', negli anni in cui e' il tuo turno plasmare il mondo, sia bello sentirsi così, non scollati anche se confusi, impegnati in un tentativo di riorganizzazione delle priorità che forse non è solo personale.
Oggi pomeriggio, mentre attendo l'ennesimo temporale, non mi sembra poco.

martedì 14 giugno 2011

Silenzio: nasce un gelso

Dopo il fallimento del trapianto del fico, che dopo essere marcito nel diluvio ora sta lentamente seccando al sole, e la stasi delle ortensie rubate, che non danno cenno di riprendere a vegetare, avevo deciso di stendere un pietoso velo di silenzio sui miei sfortunati esperimenti di talee di giugno.
Poi, un timido segno di speranza. Uno dei rametti di gelso che mi ha regalato un amico in una giornata triste, messi a radicare in acqua e poi in terra, nel vaso degli esperimenti nel quale al momento si trovano anche germogli di basilico e foglie strappate dal vento di piante grasse, ha deciso di buttare fuori una fogliolina verde.
Non dico nulla. Aspetto. Lo guardo facendo l'indifferente, per non illudermi.
Anche un rametto di pomodoro spezzato mentre legavo le piante per proteggerle dal vento e due pezzetti di rosmarino su cui dev'essere caduto uno dei gatti, nel vasetto della marmellata in cui li tengo in cucina, hanno deciso di mettere radici.
Che sia la riscossa della mia carriera di clonatrice di piante?
Chi lo sa.
Io taccio e rido dentro.

lunedì 13 giugno 2011

I giorni della merla (una ragione per dirsi umani)

Ieri sera puntata di ER direttamente in giardino. Seduti sul divano cercavamo di capire come stessero andando i referendum (esito spettacolare e secondo me completamente inaspettato, almeno in questa misura plebiliscitaria. "L'Italia s'e' desta", come mi ha scritto giustamente mia suocera), quando il normale canto degli uccellini la' fuori e' diventato un baccano assordante.
Mi alzo, esco e vedo quello che mai avrei voluto vedere. La gatta piccola con in bocca un uccellino e la mamma del poveretto che gira vorticosamente intorno alla belva. Inferocite entrambe, solo che la gatta ha quatrro gambe, denti e unghie e non solo un timido beccuccio. Lotta alquanto impari, dunque.
Ora: io lo so che e' la crudelta' della natura, lo so che la tigratina non e' cattiva, segue solo il suo istinto, che nei boschi e nella savana va cosi' da che mondo e' mondo. Comunque ho cacciato un urlo. Non vi auguro una scena del genere mai nella vita. 
L'urlo, che mi ha fatto prendere della pazza dal coniuge, ha avuto il vantaggio di interrompere il sacrificio rituale in corso, rituale perche' io accetto l'uccellinicidio per fame, ma la disgraziata ha croccantini e pappa molle a volonta'. 
La gatta mi ha guardata, ha preso in bocca la preda e ha pensato bene di infilarsi in casa, trovando ad attenderla una me ancora piu' incattivita di lei, con la scopa in mano.
L'uccellino, dimostrando un invidiabile istinto di sopravvivenza, ha approfittato della mia azione di disturbo per rifugiarsi in una minima intercapedine che c'e' fra la libreria e il muro. Il coinuge, ormai coinvolto nel dramma, ha messo i guanti che uso per potare le rose e mi ha aiutato a prenderlo e a metterlo in una scatola. 
A quel punto, fra la disperazione della gatta e quella della madre, che continuava a chiamare il suo piccolo convinta che fosse stato ormai digerito, ci siamo posti il problema di dove mettere il pennuto, che si era rivelato una meravigliosa pallina con il becco, una cosa struggente. Tra l'altro, sembrava terrorizzato, ma quasi illeso. 
E' partita una consultazione condominiale, ma purtroppo l'opinione dominante lasciava al pipino poche speranze. L'unico modo per salvarlo, a detta dei piu', era farlo immediatamente ritrovare dalla mamma, ma questo avrebbe implicato servirlo su un vassoio d'argento alla gatta.
Nell'indecisione, l'uccellino e' stato portato nel cortile condominiale, in mezzo alle surfinie, all'aperto per non farlo soffocare nella scatola, ma fuori dalla portata di potenziali assassini.
Dio benedica internet: una veloce ricerca sul web mi ha permesso di individuare un pronto soccorso dell'ENPA per animali selvatici, ho composto il numero di telefono senza grosse speranze di ricevere una risposta (nel frattempo si erano fatte le dieci di sera). Mi ha risposto un gentilissimo veterinario, palesemente abituato a voci colpevoli di padroni di gatti assassini, che mi ha detto: "lo metta in una scatola e lo porti qui, se puo'". 
Certo che posso.
Bucherellata la scatola per permettere il trasporto del pipino, che nel frattempo aveva pensato bene di passeggiare per il cortile, con caccia al tesoro notturna per recuperarlo alla luce di una torcia sotto il portabiciclette, mi sono messa in macchina, per attraversare la citta' immersa nella movida di una bella domenica sera d'estate che sembrava una tregua dopo settimane di pioggia. 
A fianco a me l'uccellino aveva capito e stava buono dentro la scatola, nel lungo viaggio che lo portava lontano dalla sua mamma, ma anche lontano dal suo attentatore. 
Il pronto soccorso ENPA e' un posto commovente, di quelli che fanno pensare che l'umanita' ce la puo' fare. C'e' una ragazza asciutta, ma gentile, che compila la scheda di accettazione in un coro di animali perduti o ritrovati, feriti o ammalati, comunque salvi, deboli fra i deboli nella citta' inospitale. E c'e' un veterinario ragazzo, con la faccia di chi ne vede di tutti i colori e ha ben chiaro che ci vuole impegno per non pensare che le bestie sono meglio degli uomini. 
Gli ho messo in mano la scatola, agitatissima: "puoi dirmi se va tutto bene, non lo sento piu' muovere", gli ho detto senza il coraggio di aprire e guardare con i miei occhi. Dallo spiraglio che ha sollevato nel contenitore e' uscito un profilo tondo, un becco girato all'insu'. L'uccellino era indubitabilmente vivo e sembrava anche curioso. 
Dalla visita ho scoperto che le ferite erano superficiali, che non era nulla di grave. Ho scoperto anche che era un merlo, o, meglio, una merla. Una piccola merla gia' abbastanza grossa, che in un paio di settimane sapra' volare e libereranno all'aperto. Lontano dalla tua gatta, ha precisato il dottore.
La sua mamma stasera la cerca ancora, sotto lo sguardo ancora predatorio della gatta, da cui si tiene lontana. 
Vorrei avere una lingua per spiegarle che la sua bambina sta bene, che avra' una vita che spero felice. Vorrei dirle che non deve pensare che mi sia arresa come consigliavano i vicini, che una pazza disposta ad attraversare la citta' per un'uccellina ha trovato altri pazzi che stavano in un ambulatorio alle undici di sera, disposti gratis a curarla e accudirla. 
Cerco di dirle che mi dispiace che lei non lo sappia, che faccio fatica a coccolare l'artefice di tutto questo, che mi guarda angelica e innocente come Celli ha raccontato tante volte. 
Guardo la merla e non sono capace di dirle che questa notte ho dormito bene, come si dorme quando si sa di avere fatto il proprio dovere. 
Che almeno per una volta credo di aver reso un po' meno inutile e supponente questa suddivisione solitamente discutibile fra umanita' e animali, avendo deciso che per amore si puo' andare contro quell'umano di nome Darwin, che avrebbe condannato sua figlia a morte giusta ma non buona. 

domenica 12 giugno 2011

Farewell per un gattaro

Proprio ieri ho citato Giorgio Celli, autore di "Le piante non sono angeli", un libro bellissimo che non mi stanco mai di rileggere.
Mentre ne parlavo, lui e' morto, a Bologna.
Lo ricordo con tutta la simpatia che si puo' riservare a una persona che ha scelto per mestiere e passione di studiare gli insetti, che deve quindi avere una straordinaria passione per i dettagli e una grande capacita' di andare oltre l'apparenza.
Gli auguro un buon cammino verso il paradiso dei gatti, dove in molti lo attenderanno per strusciarsi intorno alle sue gambe e fargli le fusa.

La donna preistorica



Stasera degli amici avevano dei biglietti gratis per Caveman. Per chi non vivesse in citta', si tratta di uno spettacolo che fanno da un po' in un teatro storico del cabaret, uno di quei posti che ti richiamano gli anni ruggenti, quando la retorica urbana dice che dalla nebbia che avvolgeva il duomo uscisse divertimento, innovazione, genialita'.
Avete letto l'ultimo libro di Faletti? Io si', perche' sono onnivora dal punto di vista letterario e quello e' passato da casa. Il clima e' quello. Una citta' dalle notti meno rigide, una citta' con qualcosa da dire, sempre grigia, ma con ironia.
Il monologo, che penso sia un format americano, ma in cui, da bravo soliloquio, conta tanto l'attore, fa ridere parecchio. La metafora e' vecchiotta: le differenze fra uomo e donna risalgono alla preistoria, all'uomo cacciatore e alla donna raccoglitrice di semi.
La sapete quella dell'agricoltura e dell'idea di divino che hanno una sola origine, il culto dei morti? Io l'ho letta in un bellissimo libro di Celli, che parla di piante.
L'autore racconta di generazioni di donne che andavano a portare offerte sulle tombe degli antenati. Piano piano hanno cominciato a vedere che dalla disgregazione sottoterra di questi saggi anziani, o di questi eroi morti giovani, combinata con le testimonianze del loro affetto sotto forma di fiori e frutti nascevano piante nuove, piu' belle - e concimate - di tutte le altre. Da qui due pensieri consequenziali e limitrofi: da frutti e fiori nascono nuovi fiori e frutti, la base dell'agricoltura, e c'e' un aldila', da cui le persone che abbiamo amato e che sono morte ricambiano i nostri doni. Era nata pure la religione.
Non so se sia una teoria affidabile, ma io la trovo bellissima.
Comunque Caveman parla di questo, di donne che osservano e raccolgono informazioni a largo raggio, che prima o poi connettono per formare pensieri nuovi. Dall'altro lato stanno uomini cacciatori, che affinano una tecnica, ma restano focalizzati su un oggetto solo, quindi hanno un cervello che funziona in modo diverso.
Da questo assunto nascono infinite gag sulla quotidianita' e l'interazione fra i due generi, ma questa mi sembra la cosa meno interessante. Andate a vedere lo spettacolo e ridete riconoscendovi in un'infinita sequela di reciproche idiosincrasie.
La cosa graziosa, secondo me, e' che la teoria funziona, che ho molto di quel prototipo femminile.
Lo vedo mentre esco e fuori ancora piove per controllare i danni della grandine, perche' questa primavera, ormai fattasi bizzarra estate, non ci facciamo mancare niente. E' la visione d'insieme di tante foglie a terra, ma e' anche il dettaglio del buco sulla foglia di gardenia, quello dei peperoncini appena nati e quasi annegati a cui tolgo in fretta il sottovaso per farli sgocciolare. Sono le chiome dei glicini ancora una volta tutte reclinate verso il suolo, a fianco della desolazione delle sdraiette di plastica che sembrano una spiaggia a novembre. Un bocciolo di rosa che non riesce ad aprirsi per i funghi, che non ce la faccio ormai piu' a controllare nemmeno con il rame, che do malvolentieri, ma che ultimamente mi era sembrato una scelta obbligata.
E' la consolazione del limoncino che e' ancora al suo posto, attaccato al suo esile rametto cordone ombelicale come se avesse le unghie.
In tutto questo c'e' la donna della preistoria che raccoglieva, e molto presto aveva cominciato a coltivare, i suoi frutti.
C'e' anche in un gesto moderno, che ha una base antica: telefonare subito a mia madre, per farle sapere che capisco l'ansia con cui scruta il cielo, che mi ricordo di quando arrivava una chiamata dalla campagna accolta come la notizia di un lutto e si partiva a tutta velocita', per andare a vedere i danni. Il giro a piedi per il campo dov'era venuta la "tempesta", cosi' si dice grandine dalle mie parti, e il ritorno con la testa bassa, che si scuote. E' tutto andato, anche quest'anno.
Secondo Caveman le donne cooperano, condividono, perche' sono sempre andate insieme in campagna. Mentre le mani lavorano e gli occhi osservavano l'insieme e i dettagli, si chiacchierava, come oggi.
Si trasmetteva sapere.
Oggi, mentre mangiavamo, discutevo con mio marito su quanti sono i giocattoli che si possono fare con i fiori. La mia conclusione era molti. La sua, nessuno. Ma come nessuno, chiedevo io? Io facevo le bamboline girando piano piano all'ingiu' i petali del papavero e veniva fuori una principessa, con anche la coroncina intorno al capo.
Oppure soffiavo i soffioni. Con il gambo dello stesso fiore, che ho sempre chiamato piscialetto, tutto attaccato, ma credo abbia nome tarassaco e si trovi nelle tisane depurative, si potevano fare i riccioli. Bastava cogliere uno stelo, inciderlo appena con le unghie, quello si arricciava tutto.
Poi si poteva suonare con i fili d'erba un po' larghi, che pero' ogni tanto tagliavano dita e labbra e bisognava stare attenti, oppure fare le catene con le margherite.
Mi sembrava strano che non conoscesse nessuno di questi divertimenti banali della mia infanzia.
Poi ho pensato che erano tutti insegnamenti femminili, che queste cose le avevo imparate tutte da mia madre in lunghi pomeriggi in cui mi ero stancata di giocare con i puffi in mezzo ai ciliegi, mentre si facevano i cestini da vendere al mercato. Oppure da mia nonna mentre si faceva su e giu' per i filari del pereto, nell'altro podere.
Mi piace la complicita' sottesa a questo rapporto. Anche con la capa, ormai, il giardino sembra uno dei pochi temi che fanno sotterrare l'ascia di guerra.
Ho sempre notato che animali e piante sono ottimi argomenti che creano un immediato filo fra le persone.
Oggi ho sentito la mia amica, che non mi sta molto vicino in questo periodo difficile perche' vive lontana e ha un'esistenza anche lei piuttosto complicata. E' la mia amica quella piu' amica di tutte, l'unica persona al mondo che quando si e' ammalata mi veniva da parlare al plurale, come se fossimo malate tutte e due.
L'inizio della telefonata e' stato un po' difficile, era strano raccontarle tanti avvenimenti che accadono da distanza, senza condividerli minuto per minuto, avere lunghe file di fatti da descrivere perche' altrimenti diventata impossibile seguire sequenze logiche. Avevo persino un po' di rancore buono, bisogno di dirle: "Ma dove sei? Mi e' indispensabile sapere cosa pensi, averti per aiutarmi a mettere ordine in questo casino che ho nella testa".
Poi mi ha parlato di una sua rosellina moribonda per un attacco di una malattia improvvisa, abbiamo cercato soluzioni per salvarla. Solo poche ore prima stava benissimo, nuovi bocci erano spuntati e aveva getti rossi e verdi, nati dopo una fioritura eccessiva, probabilmente procurata in serra. La mattina era secca e con le ragnatele degli insetti addosso, la sua coinquilina pensando di far bene aveva aggravato la situazione, con un travaso che la poverina non so come potesse aver preso, dato che gia' non stava bene. La mia amica mi ha detto: "l'avevo tanto curata, stava benissimo, pensavo saresti stata orgogliosa di me".
Mi si e' stretto il cuore, perche' ho capito che mi stava vicina da laggiu' a Roma, attraverso una rosa coltivata anche pensando a quando io l'avrei vista.
Come se fossimo state sempre di fianco, a piantare semi, parlando di cosa succede nelle nostre vite, nel mondo, e a inventare cosi' idee nuove.

giovedì 9 giugno 2011

L'autunno

La mia collega mi dice: "Oggi esco alle tre, perché mio figlio ha la recita scolastica per la fine della prima elementare."
Io: "Che bello, chissà che emozione! Qual è il soggetto?"
La mia collega: "Non lo so. Lui fa la parte dell'autunno".
Ho avuto davanti agli occhi l'immagine di un bel bambino concentrato e composto che recita facendo l'autunno.
L'ho trovata una cosa struggente, di quelle che ti fanno desiderare di avere sempre sei anni.
O di saper prendere ogni impegno della vita con la serietà che merita impersonare l'autunno alla recita di prima.

martedì 7 giugno 2011

Monsoon thoughts

Solo alcune immagini stasera, dopo un'altra giornata di pioggia che ha ormai trasformato il giardino in uno stagno.
L'ultima volta che sono stata in Emilia dalla mia mamma ho visto in cantina un bellissimo catino gigante di zinco, che l'anno prossimo, se continua cosi', trasformero' in un laghetto per le piante acquatiche.
Stasera sono stata fuori pochi minuti, giusto il tempo di raccogliere zucchine gigantesche e fragole finalmente dolci e buone che erano incredibilmente maturate senza sole.
Ne ho approfittato per una veloce ispezione.
La rosa lilla di Barni si conferma appartenere a una razza superiore. Travasata nella stagione peggiore, in piena fioritura, perche' non si poteva lasciare nel vasetto minuscolo di plastica in cui era, non solo si e' abituata a tempo record, riuscendo a far sbocciare magnifiche rose livide e caparbie, ma ha fatto nuovi, lunghi getti di un rosso entusiasta, che ora culminano in minuscoli, strettissimi boccioli che proseguono il loro cammino verso la fioritura in mezzo al disastro metereologico.
A prescindere da questa campionessa della specie e per onesta' nei confronti delle altre abitanti del giardino, mi sento in dovere di sottolineare che tutte le rose, quest'anno, sono foriere di sorprese continue. Quella antica bianca e rosa e' per la terza volta in fioritura, colma di boccioli che dimostrano la sua gioia per la posizione a fianco dell'orto, in un pieno sole che assomiglia a una posizione geografica piu' che a una condizione reale, ma tanto le basta per dimostrarmi la sua gioia e la sua riconoscenza. La rosa candida e' partita in ritardo, ma e' ora una nuvola, anche se le teste sono tutte reclinate e gonfie d'acqua.
In compenso ho un vaso sul tavolo di cucina che mi aiuta a svegliarmi la mattina, anche se e' sempre piu' difficile alzarsi per andare in un ufficio dove ogni giorno lotto per tenere duro, per essere professionale, fino alla fine. Andandomene con la reputazione affettuosa che non voglio perdere mai, per diventare trasparente piano piano e non dare troppe grane a tutti quelli che resteranno dopo di me.
Anche alla mia collega che oggi mi ha detto: "Se tu dovessi andartene un giorno, non so come faremmo, non so come farei". Ha riso, come per un'ipotesi impossibile. Non le ho risposto. Ho pensato che fara'. Che respirera' ancora l'odore di quella moquette polverosa che mi manca gia' se ci penso, mangera' con altri la crostata del suo compleanno, quella che la capa guastera' parlando di lavoro nei cinque minuti dedicati a un pensiero diverso. Che bastera' poco e saro' sparita, solo un ricordo sfumato in un vecchio aneddoto che salta fuori ogni tanto in mensa.
Mi sono soffermata anche a guardare la rosa di fosso, quella che e' esplosa in un fiore unico e gigantesco, che ha fatto in tempo a essere struggente prima di essere rovinato dalla pioggia. Ho guardato sotto, per vedere se per caso qualche altro bocciolo avrebbe potuto sperare in una stagione piu' clemente, addirittura di schiarire il rosa carico al sole.
Ho visto una strana erbaccia. Era una violetta azzurra e gialla, la nipote imbastardita - o rinaturalizzata - di una viola del pensiero da serra, mescolata, cosi' penso, con altre viole di carreggiata di campagna. Mi sono commossa per questa piantina fuori stagione, che e' stata nascosta per mesi sotto la terra per sbucare alla fine di questa primavera sempre piu' strana e fiorire pallida e timida quando la rosa che la ospita ha deciso che questa ormai era diventata casa, quando le aha detto che poteva stare tranquilla.
Il fico in cortile, invece, quello estratto dal buco, e' in crisi nera. E' un dolore vedere appassire le foglie in un mare d'acqua, con radici che non riescono a pescare il liquido che potrebbe tenerle in vita. E' come guardare mia nonna quando stava per morire, i polmoni incapaci di raccattare l'aria, la maschera dell'ossigeno che si schiacciava ritmica sul viso scavato. Spero che ce la faccia, che sappia trovare un po' di forza e nutrimento. Come per mia nonna, posso solo stare a guardare, sistemare una foglia che si e' accavallata alle altre come aggiustavo una ciocca di capelli sulla fronte sudata, sperare che sappia resistere e radicare di nuovo e ricominciare, come mia nonna aveva fatto tante volte prima dell'ultima, la scorsa estate.
Subito sotto stanno le talee delle ortensie rubate, belle e coraggiose e impegnate. Non so se ce la faranno tutte, ma penso che alcune sicuramente si'.
La pioggia ha fatto crepare anche i duroni della mia mamma, che aveva quest'anno un raccolto straordinario in campagna.
Le devo fare un discorso serio, la prima volta che possiamo parlare con calma, non al telefono.
Spiegarle un po' meglio il cambiamento climatico, darle qualche articolo che ho in ufficio su come il clima, da noi, sara' necessariamente sempre piu' monsonico, come in questi giorni. Inverni senza il terrore delle gelate, primavere asciutte e soleggiate, improvvise settimane che bagnano le ossa come queste.
Devo suggerirle che forse e' meglio se comincia ad acclimatare qualche nuova coltura, piu' adatta al tempo che verra', accanto a quelle che coltiva e recupera, con la straordinaria capacita' di far crescere cose che hanno lei, le persone che le stanno di fianco e il terreno di casa.
Forse ve l'ho gia' raccontato, a volte mi ripeto sulle cose che mi colpiscono, ma nell'orto di Ciro germogliano i pali d sostegno. Fanno sorridere i pomodori attaccati a grossi rami recisi ed evidentemente non ben seccati, che si riempiono di getti verde chiaro come se la natura fosse troppo esuberante per fermarsi davanti a qualcosa di irrilevante come la morte.
Penso che forse una volta i duroni, le pesche e le albicocche devono essere sembrate esotiche in Emilia, almeno quanto lo paiono oggi papaie e manghi, in un territorio che all'uomo di allora sembrava normale fosse ancora glaciale e invece cominciava a intiepidire.
Forse e' un'eresia in un mondo, di cui mia mamma e' esponente, che lotta giustamente per recuperare gli antichi semi, ma puo' darsi che ci sia una via di mezzo, un modo per accompagnare il passato verso il futuro senza traumi, con dolcezza. Cercando di adattarsi per gradi al cambiamento, prefigurando un mondo diverso, mentre si cerca di mettere in salvo tutto quello che di buono c'e' nel tempo presente.
E' una bilancia difficile da tenere in equilibrio, un confronto pesante fra utopia e rassegnazione, su cui penso valga la pena tentare di fondare la vita.
Sto imparando che questa e' la condizione di tutti e che cercare di camminare sul crinale fra questi due stati, fra questi due sentimenti, ha una sua irriverente poesia. Quella che distingue il ripiegamento dalla resistenza, quella che cerco anch'io, nel mio piccolo, di perseguire nella mia estate dei monsoni.

domenica 5 giugno 2011

Una pantera rosa in mezzo alle lucciole

Piove, piove come se non avesse mai piovuto sulla terra, piove così tanto che i sottovasi sono piscine, che le rose appassiscono prima di aprirsi, che il giardino non si capisce se diventa infinitamente verde o sa un po' di marcio.
Piove sui pomodori stoicamente verdi, piove sulla rucola che forse evolverà in alga, piove sul dondolo che sembra una piscina e sul tetto della pergola, con un suono sordo e forte.
Piove sul gatto grande, che anche stasera mi ha fatto preoccupare perché per la pioggia si era riparato chissà dove e non è tornato se non per una visita brevissima, in cui aveva pure perso il prezioso collarino con il bussolotto del numero di telefono, e chissà dove l'avrei trovato.
Piove così tanto che ieri mi sono iscritta a un bellissimo forum sul giardinaggio, ma il moderatore ha ucciso la poesia della mia prolissa mail introduttiva. Mi ero sentita in dovere di spiegare chi ero richiedendo la registrazione al forum, di descrivere per sommi capi il giardino, di spiegare perché volevo iscrivermi e partecipare alla discussione.
La risposta è stata: “Per favore, mi scrivi che nickname vuoi?”. Non sono brava a far parte delle comunità virtuali, e dire che quelle fisiche in genere me le gestisco piuttosto bene. O forse le due cose sono inversamente proporzionali.
E' come se nelle comunità elettive ci fossero ancora più barriere all'ingresso, come se occorresse avere interessi univoci, un linguaggio già comune a priori, come se non bastasse voler fare amicizia e, soprattutto, avere delle domande da porre. Le quali, nel mio caso, sono le seguenti. 
Prima domanda: le formiche e gli afidi sono amici e nemici? Io ero convinta che le formiche mangiassero i piccoli afidi e che quindi ne controllassero automaticamente la popolazione, ma ho letto che in realtà “le formiche proteggono gli afidi in cambio della melata zuccherina. E' chiaro che fra le due cose c'è tutta la differenza del mondo, perché se sono amici mi tocca dare l'insetticida. In tal caso ucciderei anche le formiche?
Seconda domanda: se il glicine ha un po' di ticchiolatura posso lasciarlo fare e vedere se se la cava da solo oppure devo dare l'antifungo? Da un lato, ho il terrore delle spore che migrano e mi fanno il giardino a pois, dall'altro vorrei evitare di dare veleno ovunque per un po' di macchioline nere, che la pianta sembra sopportare senza problemi, dato che di foglie ne ha milioni e perderne un po' non sembra che le crei difficoltà.
Forse i forum sono frequentati da persone per cui la vita sociale è già una corsa a ostacoli e almeno lì vogliono essere loro a scegliere. Forse le mie domande sono stupide o banali. Forse scrivo semplicemente troppo.
Piove così tanto, ma questo non ha impedito a me e al mio vicino, ieri sera, di compiere un furto.
Un furto elegante, che mi ha fatto sentire la pantera rosa. Eravamo andati fuori a cena e tornando a casa mi è tornato in mente che un paio di mattine prima, andando a fare la spesa, avevo visto una palazzina di uffici – in realtà un deposito, mi hanno detto, di una catena di elettronica di consumo – che aveva uno stretto cortile che dava sulla strada, con una vera e propria collezione di ortensie.
Ce n'erano di tutti i tipi, quelle classiche rosa e azzurre, ma anche di un bel rosa carico quasi rosso, oppure altre con i fiorellini interni piccoli e chiusi e solo una corona di corolle lilla tutta intorno. Poi c'erano le ortensie vecchie, quelle un po' verdine e non tanto grandi, con i fiori a pallina di mollica di pane che quando si aprono sono come stelle, con i petali a punta. A me ricordano il giardino di mio zio, quello morto troppo giovane.
Insomma, una raccolta meraviglio di piante enormi, in piena terra, completamente fiorite.
Il mio vicino mi ha chiesto: “Hai le forbici con te?”.
Siamo andati a casa a prenderle.
Ha parcheggiato la macchina un po' lontana, fuori dalla portata delle telecamere. Siamo passati facendo gli indifferenti, per quanto si possa apparire indifferenti con un paio di forbici da potatura in mano a mezzanotte passata.
Abbiamo fatto le talee. Parecchie, fatte con i rami che sporgevano dalla ringhiera sulla strada, sporgendoci appena per tagliare sotto la gemma quando era bella evidente. Visto che c'eravamo, abbiamo preso rami che portavano anche qualche infiorescenza. Insomma, abbiamo fatto un gran mazzo.
Poi mi sono avviata tranquilla, ridendo. “Scema” mi ha detto “così passi davanti alla telecamera, vuoi anche salutare?”. Gli ho detto di no, sarebbe stato complicato con un fascio di talee sulle braccia. Mi ha lasciata lì sul marciapiede mentre andava a prendere la macchina.
Dovete sapere che sulle vie intorno a casa mia, la notte, ci sono le lucciole, nel senso delle prostitute. Dovevo fare una certa impressione agli stronzi che fanno il tour, una puttana pazza in abito rosso corallo lungo, con in mano un fascio di ortensie e un gran sorriso stampato in faccia, a fianco di ragazze poco più che bambine semi nude e dal viso arrabbiato e deluso.
Mi veniva voglia di regalarle a loro, le ortensie, per farle ridere un po', per dire loro che al mondo ci sono anche cose perfette che crescono vicino al marciapiede, che danno la propria bellezza gratis e a cui i vecchi bavosi che passano sulle auto tristi del sabato sera non possono far male.
Non l'ho fatto perché il mio vicino è passato e mi ha portata via, a piantare la nostra felicità rubata in cortile e nel giardino, nel grande vaso dove c'è già la mia ortensia.
Se un giorno aprirò un negozio di fiori, cercherò qualcuna di quelle ragazze e chiederò loro se vogliono lavorarci con me, per continuare a vendere bellezza senza soffrirne più. 


p.s. ringrazio la mia nuova amica giardiniera e sociologa, che mi ha aiutato a togliere un terribile svarione da questo post. Da qui un'altra domanda: come si chiamano i fiori sterili dell'ortensia, quelli vanitosi che servono solo a farsi bella con gli insetti?

venerdì 3 giugno 2011

Il cane di Jackson Pollock

Non mi sono mai piaciute le esposizioni di cani di razza, le uniche che amo sono le feste del bastardino. E' li' che la genetica da' il meglio di se', unita alle difficolta' della vita che formano il carattere, senza far perdere la dolcezza.
Ricordo un'esposizione dei piu' brutti cani del mondo che vidi per caso in un parco un anno fa circa, prima di traslocare da questa parte della citta'. Non c'era un orecchio della dimensione giusta, non una zampa proporzionata al corpo, non un naso o una coda che esprimessero classe e distinzione. I peli, poi, erano terribili. Mix di colori senza disegno, tavolozze di Jackson Pollock sui soli toni del marrone o del grigio.
Quei cani, pero', avevano una socievolezza diversa da tutti: curiosi verso i propri simili, tutto un annusare di sederi e naso contro naso, guardavano il loro essere umano d'elezione, il capobranco, con la certezza che sarebbero morti per lui. Con diffidenza non ostile tutti gli altri. Il messaggio era chiaro: non parto prevenuto, non penso che tu voglia farmi male, pero' aspetto di averne la prova - una mano allungata bassa per una carezza non imposta, uno sguardo basso, un tono di voce amichevole - perche' purtroppo la vita mi ha insegnato a fare cosi'. Bestie coraggiose per forza, violate nell'ingenuita', ma per questo piu' vive e capaci di resistere. Alla pioggia e alla fame, alla cattiveria e al tradimento.
Oggi il mio vicino di casa ed io abbiamo eseguito un'operazione di salvataggio di un fico. Lui soldato scelto in missione speciale, io crocerossina, siamo partiti per la missione, che spero sia riuscita.
Non che il fico l'avesse chiesto, poteva farcela anche cosi'. Noi pero' abbiamo pensato che si fosse gia' guadagnato le sue mostrine da sopravvissuto, che ora potesse aspirare a una vita diversa.
Era nato chissa' dove, la vita l'aveva portato in un tombino, dove cresceva su sabbia e rifiuti. Spuntavano solo alcune foglie oltre la grata, e' da li' che l'abbiamo visto. R. si e' calato nel tombino e l'ha estirpato, non con molta delicatezza, devo dire, ma con uno strappo deciso. L'ultima sofferenza, prima di essere infilato in un bel vaso grande di terra vera, con molto concime e acqua in abbondannza per far riprendere le radici dal trauma.
E' storto come quei cani, proprio brutto. Ha diversi rami a crescita casuale, e' venuto su al buio, con solo il capriccio di un raggio di luce a guidarne lo sviluppo. Le foglie sono di un bel verde brillante nonostante tutto, pelose come solo le foglie del fico sanno essere, ma sottilissime, come di una pianta albina, come il bambino imprigionato nel pozzo du un libro splendido e di uno splendido film, Io non ho paura di Ammaniti e Salvatores.
L'abbiamo legato a due bambu' troppo corti perche' trovi finalmente un supporto, perche' possa riempirsi di foglie, l'ho pulito con la canna dalla polvere e dalle ragnatele perche' respirasse meglio, l'ho innaffiato con acqua fresca.
Immagino lo stupore che non sa dirmi, gli occhi stretti per tutta quella luce che sono certa non abbia mai visto e il fastidio per il sole, che ha cosi' a lungo cercato da dentro al buco.
Penso che sara' felice, come il cane randagio quando trova il padrone. Spero nessuno gli dica che e' brutto, perche' invece, almeno per me, e' l'incarnazione della bellezza. Perche' ce l'ha fatta, perche' ci ha creduto, perche' non si e' mai lamentato per la sfiga di un seme o di un frutto marcio che cadono proprio li', nel tombino di una cantina, in un cortile lastricato che, con fatica e neanche un soldo, stiamo piano piano facendo diventare un giardino.
Non c'e' niente di commovente, in tutto questo. Non e' una storia edificante di chiusura di un telegiornale filogovernativo.
E' la brutalita' della vita, con tutta la sua violenza e crudelta', con la speranza che porta, se solo uno sa ascoltarla in un fico o in un cane spruzzato di Pollock.

giovedì 2 giugno 2011

L'equilibrio della zanzara

Fra i vari equilibri di cui sono alla ricerca in questo periodo, quello piu' importante e' indubbiamente quello del giardino. Parto dai dati di fatto: quest'anno ci sono la meta' - forse meno - delle zanzare dello scorso anno. Le piante sono tutte piu' sane, non si secca piu' cosi' tanto la terra e devo innaffiare molto meno.
In pratica l'unico difetto del giardino, il doversi fare il bagno nell'autan la sera prima di affrontare il cineforum con il computer e le cuffie sulle sdraiette (fra i piaceri del mondo forse uno dei piu' assoluti), e' scomparso da solo.
Le ragioni possono essere le piu' varie.
Spiegazione casuale - atmosferica: e' stata una meravigliosa primavera si sole, non umida, priva dei laghetti naturali, anche nei sottovasi, che fanno da incubatori ai fastidiosi insetti con la proboscide succhiasangue.
Spiegazione disfattista: quelli del Comune avranno azzeccato una terribile distribuzione a pioggia di ddt.
Spiegazione ottimista: sono proliferate le rane nei laghetti di periferia e i pipistrelli in citta', che se le sono mangiate tutte.
Spiegazione autocentrata: il mio giardino ha migliorato l'equilibrio dell'ecosistema.
Probabilmente il congruo numero di zanzare dell'anno e' frutto di un po' tutti questi fattori messi insieme, ma voglio sperare che il mio verde un po' abbia contato.
Rispetto all'anno scorso, mi sembra tutto piu' fresco, i milioni di foglie stanno cominciando a fare il loro mestiere e a regolare il clima, alla faccia del pavimento di cotto bollente delle sei di sera. Le bestiole ci sono, sono tante. Ogni mattina farfalline bianco candido, uguali a quelle che ricordo in campagna da bambina, volano fra i fiori. Ci sono i bombi e anche alcune api. Palesemente qualche lumaca, con buchi tondi sul trifoglio che lascio a pacciamare i vasi. Pidocchi molti, ma non troppi. Abbastanza da controllarli con il semplice uso delle dita, quando proprio decidono di nutrirsi di quel bocciolo di rosa che da due settimane mi sta facendo penare per aprirsi.
Giu' in cortile ho notato che le formiche camminano sugli alberi e vanno a mangiare i piccoli afidi ancora uovo. Tremendo da vedere, ma molto efficace.
Ci sono molti uccellini, nonostante i due quadrupedi facciano il loro mestiere con estrema coscienza e quindi nessuno possa sorvolare lo spazio aereo del giardino, che resta l'unico del circondario a non riportare mai una cacca di piccione sul pavimento, segno che i volatili, qui, difficilmente si possono rilassare. I merli li vedo pero' bere nella grondaia quando i due sono distratti, o passeggiare sui muri mentre i quadrupedi fanno il riposino in camera mia.
Stanno crescendo bene le belle di notte che mi ha regalato il figlio artista del mio vicino. Se si apriranno, fra meno di un mese, la sera non mi stupirei di vedere arrivare persino una lucciola, che mi commuoverebbe come ha sempre fatto.
Voglio pensare che tutta questa vita, questi odori, questa lotta per la sopravvivenza siano responsabili del contenimento della zanzara notturna e della sparizione di quella veramente antipatica, la tigre. Che ogni anno sia destinato ad andare meglio e che le capacita' di recupero dell'ecosistema siano quelle che sto vedendo qui sopra: possenti e veloci.
Una cosa che mi ha sempre sorpreso e' quanto in fretta l'ambiente ripari i danni, in primis quelli umani. Ricordo ancora il dramma del buco dell'ozono, tutte quelle bombolette che sembravano insostituibili e di cui ci siamo liberati in pochi anni, per scoprire che il buco, che ci aveva messo decenni a formarsi, allargandosi lentamente, si sarebbe chiuso in un attimo.
La natura e' comprensiva e pratica come una casalinga emiliana. Ci mette molto ad arrabbiarsi, il piu' delle volte sbuffa se fai un pasticcio e poi si mette a pulire e riaggiustare. Mica solo con i disastri umani: avete presente le eruzioni vulcaniche, tutto bruciato e nero? Poco dopo nascono i fiori e si ricomincia daccapo.
Insomma, come sempre e' da li' che prendo ispirazione. Nel buco in cui sono rannicchiata cerco un equilibrio, un miglioramento impercettibile e costante che se spero abbastanza arrivera'.
Sepolta dalla lava di un vulcano che io stessa ho contribuito a far eruttare, inconsapevole e attonita come un calco di Pompei, devo aspettare i fiori azzurro cielo che ho visto nella primavera siciliana, molti anni fa.
Le molte signore emiliane che mi hanno preceduta sul mio albero, non solo genealogico, sono li' che mi guardano benevole, pronte ad aggiustarmi, ad abbracciarmi, a riparare ai miei danni e alla mia tristezza.