martedì 13 settembre 2011

Fra due orchidee scartate e un nano di quercia dentro di me e' successo qualcosa

Tanti giorni che non scrivo, troppe cose nella testa e nelle mani. Lavoro come una pazza continuando a salutare persone (ormai e' vero, fra due giorni me ne vado), con molta ansia per quello che lascio nel pc e nei cassetti, poca per le persone, che mi sembra inverosimile non vedere piu'. 
Come sempre quando non riesco a non pensare, ho passato la domenica a giardinare. Con foga, come se dovessi compensare le piante per quei troppi giorni in Cina, per il troppo lavoro, per la malattia della gatta piccola - vi raccontero' anche di quella per bene - che mi hanno impedito di curarle. 
Come se dovessi dir loro che anche se da lunedi' saro' lontana tre quarti di settimana sono loro la priorita', sempre e comunque.
Ho potato i rincospermi che crescono sulla spalliera del portico e che avevano approfittato della mia assenza per gettare lunghi rami contorti verso il cielo. Un cielo finto, fatto di legno, che non avrebbe dato piu' luce a loro ma solo un sacco di umidita' a noi. Si sono stupiti e arrabbiati, ho finito bianca di linfa come un imbianchino che ha appena terminato un soffitto, pero' dopo un'ora erano gia' li' pacifici a crescere di nuovo, a loro agio nella forma imposta, con la cocciutaggine e la certezza negli astri che invidio da sempre ai rampicanti.
Sempre a proposito di piante appoggiate, ho finalmente trovato una spalla alla rosa gialla avuta in eredita'. Alla fine ha vinto lei, mi sono stancata di mutilarla e ora sara' libera di crescere attaccata al portico, se ne avra' voglia. Sperando che la cura d potatura radicale, che conto di ripetere anche quest' inverno, le regali una nuova giovinezza.
Infine, ho collocato i regali della mia mamma e di Ciro e gli scarti di mia nonna.
Nell'ordine ho vinto una quercia alta quindici centimetri, figlia di un grande albero del letamaio. Sta in un vasetto piccolo, legata a un bastoncino corto con due lacci troppo grandi per lei, blu di verderame (secondo Ciro il verderame e' una specie di panacea capace di prevenire qualunque problema). L'ho messa sotto ai rami protettivi del glicine, al riparo dal calore innaturale di questo settembre, ma nella posizione giusta per cogliere i raggi del sole quest'inverno quando cadranno le foglie e il glicine sembrera' un cristo in croce.
Il secondo gruppo di nuovi arrivati sono una nidiata di talee di oleandro. Le mie, per quanto curate prima della partenza, hanno vissuto male il distacco e sono morte. Quelle di Ciro, invece, sono giunte ben radicate fino a me, che ne scopriro' il colore il prossimo anno. Ho la quasi certezza che saranno rossi e che non sapro' dove metterli nel mio giardino di colori tenui, ma alla peggio faranno compagnia ai pomodori nell'orto.
Infine, sono l'estrema speranza di due sfortunate orchidee, che hanno avuto il destino infelice di essere regalate a mia nonna, a cui risaputamente muore qualunque vegetale. Mia madre ha guardato le infelici e ha detto: "strano che siano gia' cosi' mal messe, tua nipote ha ancora quelle che le hanno regalato per il matrimonio."
E' bastato questo perche' quel che resta di due fiorite bellezze bianche - poco e niente - atterrassero in giardino, dove stanno in mezz'ombra, all'umido di due vasi di rincospermo. Non stanno bene per niente e io poi non e' che con le orchidee vada molto d'accordo. Ne ho viste di troppo belle in Asia per illudermi che possano essere felici nel clima della mia citta' del nord. 
Faro' comunque del mio meglio. Perche' da lunedi' staro' via qualche giorno alla settimana, ma l'anima e il pensiero rimarranno in giardino.
Qualunque cosa dica chi credevo mi conoscesse. 
E oggi sostiene che la mia voglia e il mio percorso di decrescita siano solo l'alibi intellettuale di una a cui la vita va bene a dispetto della crisi, che deve inventarsi un'insoddisfazione e un disagio verso il modello di sviluppo in cui e' immersa per celare un senso di colpa. 
Lo chieda alla quercia e all'orchidea, quella persona, cosa credo sia importante nella vita. Forse avra' qualche sopresa, forse, in un attimo di distrazione, mi e' davvero successo qualcosa dentro.

lunedì 5 settembre 2011

Il sogno di un mandarino, e il mio

Se vuoi essere felice per un giorno, prendi moglie. 
Se vuoi essere felice per un mese, ammazza un maiale. 
Se vuoi essere felice per sempre, pianta un giardino. 

Mi perdonino il marito e il maiale se mi sembra uno dei pochi insegnamenti del viaggio in Cina.
E' esistito un tempo in cui i funzionari di un palazzo corrotto e bizantino prima ancora che Bisanzio esistesse ad un certo punto della loro carriera, quando non avevano piu' entusiasmo sufficiente per amministrare, si ritiravano in una citta' chiamata Suzhou. Oppure in qualche altro luogo di quel loro enorme paese.
Si richiudevano in un'autoreclusione che sa tanto dell'attualissimo downshifting, tiravano su qualche muro perimetrale e costruivano un giardino.
Dentro c'era il mondo intero, e quel mondo c'e' ancora, anche se la Cina che c'e' fuori da quei muri non e' piu' quella che i mandarini hanno visto.  Li immagino che escono oltrepassando la soglia alta della loro casa e si guardano intorno perplessi in quel proliferare di cantieri e cemento. Si girano scuotendo la testa e rientrano in paradiso. Acque che scorrono e ristagnano in laghetti piu' piccoli di quello che sembrano, alberi giganteschi potati per essere la scala ridotta di loro stessi, rocce e colline, torri e pagode. Animali e pesci che non si mangiano e come sempre hanno lo sguardo piu' intelligente e consapevole di quello delle persone. Stagionalita' progettate per offrire sempre uno scenario diverso, ogni giorno che passa. Ho visto i giardini dei loti e delle budleje, ma sono gli stessi degli aceri rossi, delle peonie, delle camelie fiorite.
Ogni passo deve essere un quadro. E' una regola di giardinaggio cosi' evoluta, cosi' essenziale, che sembra incredibile che sia uscita dalla mente dei bisnonni di coloro che ho conosciuto io, gente impegnata a distruggere il territorio con l'accanimento casuale del bruco sulla foglia, del virus che finira' per uccidere il suo ospite.
Perfezioni non maniacali, lontane da quella formalizzazione paranoica che mette angoscia invece che serenita'. Tante panchine, tanti punti di sosta, come se contemplare e osservare la quiete in movimento del giardino fosse il senso della vita di chi costruisce. Tunnel e passaggi a zigzag per ingannare benevolmente l'occhio e fargli credere che il giardino non finisca mai, che includa tutto quanto di bello c'e' intorno. E' il paesaggio preso in prestito, un concetto prezioso perche' non implica il furto, ma  il dialogo fra spazio privato e spazio pubblico.
Morbidezza e poesia fatte di conoscenza del clima, dell'umidita' spessa che smorza i colori e fa crescere tutto lanciando liane e riempiendo di felci e bambu' ogni interstizio.
Pazienza e amore per le nebbie della primavera e dell'autunno, che annullano gli spigoli e gli spioventi dei tetti e lasciano solo l'ondeggiare di una foglia, il nuotare lento di una carpa, il cadere di un fiore sullo specchio riflesso di una pagoda.  I giardini di Suzhou insegnano il rispetto per il popolo che li ha voluti e curati e per il tempo che li ha conservati nella loro perfezione che si evolve. Persino la banda dei quattro, che ha distrutto la citta' proibita e i templi, non li ha toccati, non riuscendo a trovare reazionaria la vita che vi scorre.
Non riesco pero' a non chiedermi dove sia finito quel popolo e perche' abbia perso la gioia di vedere un albero crescere.
Forse e' solo un momento.
Ho visto quarantenni rampanti buttare bottiglie di plastica vuote nelle acque dei laghetti.  Ma ho visto anche nonni e bambini seduti a guardare l'acqua in silenzio.
O a farsi guardare da una carpa dagli occhi millenari, ferma immobile in un momento sospeso.   

domenica 4 settembre 2011

Il futuro e la zucchina

Complice una lunga pioggia che mi ha esentata dall'innaffiare, finalmente riesco a sedermi a scrivere. 
Il giardino si asciuga e la gatta piccola si riprende all'ombra da un attacco di vermi di cui preferisco non descrivere le conseguenze sulla casa. Il gatto grande, indifferente a qualunque dramma domestico, si gode la nostra presenza, anche se non ha mai dubitato che tornassimo. 
Perche' poi non dovevamo tornare? Per restare in Cina? No, grazie. 
Avevo promesso un quaderno, che e' morto al quarto giorno. Le ragioni sono diverse. La prima e' che mi faccio un vanto di mantenere ironia nelle mie descrizioni del mondo. La' non ce la facevo. Sono stata investita dal brutto in modo cosi' violento che scriverne mi faceva rabbia o mi faceva piangere.
Il secondo motivo e' che dopo poche ore avevo un giudizio su quello che stavo vedendo e, soprattutto, sulle persone con cui interagivo, che purtroppo non e' stato smentito nei giorni successivi, quindi il diario rischiava di affogare nella noia e nel lamento.
Infine, scrivere mi faceva pensare a momenti come questo: il dondolo in giardino, il cotto umido sotto i piedi, i gatti nel verde smeraldo che viene dal sole dopo un temporale e una farfallina bianca che svolazza incurante del pericolo che corre di essere mangiata. Non riuscivo a non chiedermi cosa ci facevo la', nel vuoto pneumatico di una finta modernita', mentre tutto quello che mi importa succedeva a sei ore di fuso di distanza.
Sarei una cretina se pretendessi di dare un giudizio esaustivo su un continente per averci messo piede per poco piu' di venti giorni, posso solo dire che quello che ho visto mi rifiuto di credere sia il futuro. 
Non perche' non mi piace. Ci sono un sacco di cose che non mi piacciono, ma dicono qualcosa del nostro domani. I giudizi morali non plasmano la realta', per fortuna e purtroppo.
Semplicemente perche' io non ho visto niente di nuovo o innovativo.
Non e' il nuovo costruire milioni di condomini di cemento armato da trenta piani, ogni appartamento con una sua verandina chiusa - tanto l'aria e' irrespirabile, non ha senso avere un balcone e un suo bocchettone dell'aria condizionata.
Non e' il nuovo comperare scarpe e borse e vestiti e gadget giapponesi in centri commerciali a dieci piani, di cui otto sotterranei.
Non e' il nuovo far morire i giardini di smog, i laghetti soffocati da infestanti di cui nessuno si cura piu', finche' ci sono bottiglie di plastica da gettarci dentro e negozietti che vendono paccottiglia da portarsi a casa per ricordo.
Non e' il nuovo non vivere un momento se non dentro una macchina fotografica, attraverso la quale esprimere emozioni e vincere timidezze dentro cui altrimenti si soffoca. 
Non e' il nuovo la sporcizia, la puzza e la compassione di animali di ogni tipo - non importa se protetti o rari o destinati a sparire - chiusi vivi in gabbie nei mercati o fotografati come poveri cadaveri interi sui menu dei ristoranti a buon mercato.
Non e' il nuovo proteggere la propria assenza di curiosita' dietro una lingua complessa ed elementare, che disegna il mondo, ma non sa incontrarlo.
Non e' il nuovo andare avanti a testa bassa, consumando la realta' come rapaci affamati, incuranti di tutto e di tutti se non di un adesso gia' svanito di fronte a una nuova tentazione che viene da un occidente stereotipato.
Non e' il nuovo copiare gli errori gia' commessi da altri, perche' e' ottuso pensare che se le curve dello sviluppo hanno un andamento comune in tutti i Paesi, la Cina fara' eccezione. Lo puo' pensare solo chi ignora o decide di dimenticare la storia, la rivoluzione industriale cosi' come il destino di generazioni di imperatori a cui costruire muraglie o armare eserciti di terracotta non ha valso l'immortalita'. Sotto un ritratto di Mao che non riesce nemmeno piu' a scuotere il capo tondo e che assomiglia sempre piu' a Siddartha nella sua distanza serenissima dalle sofferenze del mondo. 
Il colesterolo, le automobili e gli immobialiaristi uccideranno a mio parere la Cina e i cinesi, ed e' un peccato perche' chi e' vittima di un black out della storia puo' almeno beneficiare dell'esperienza degli altri, non commettere gli stessi errori, usare entusiasmo, voglia di fare e gioventu' per innovare sul serio, oppure per sperimentare nuovi modi di sbagliare. 
La civilta' del falso, invece, procede imperterrita verso un destino gia' scritto, con il solo problema, a quanto pare per loro irrilevante, che non penso che il Pianeta possa avere la pazienza di offrire un'ubriacatura di sviluppo vecchio stile a un altro miliardo e quattro di persone. La misura e' gia' colma, i piatti ormai vuoti e le bottiglie sgocciolate, ben prima che oltre la meta' di lor si sia anche lontanamente avvicinata al tavolo del buffet. 
Forse li salvera' - e ci salvera' - una pianta di zucchine rampicanti che un vecchietto e' riuscito a far crescere fuori dalla finestra di un appartamento al dodicesimo pianto, affacciato su un cavalcavia del centro citta' di Pechino, in ricordo e in auspicio di una Cina diversa, di cortili e orti e giardini, che potrebbe essere davvero moderna. 
Se solo qualcuno accettasse l'idea che puo' essere futuro anche qualcosa che costa cosi' poco.