giovedì 7 giugno 2012

In morte di E.


E’ il 16 maggio, è quasi l’una e sono appena arrivata in ufficio nella città bassotto per l’ultima settimana del mio esilio. “La guerra è finita, almeno per me” mi risuona nelle orecchie, poi penso che è la stessa strofa che cantavo un anno fa lasciando il vecchio lavoro, la vecchia vita, la mia città per venire qui. Penso a quanto è stata breve e inutile questa eterna e utilissima esperienza, quanto poco mi lasci nello stomaco mentre allora andarsene era stato dolore e liberazione e fatica. Quasi un parto. Benedico ancora una volta la bambina che mi si rigira in pancia per avermi salvata, per avermi liberata come quasi tutti i figli penso che facciano prima ancora di nascere.
Sto per andare a pranzo con le ragazze, le uniche sinceramente contente di vedermi perché estranee come me, prese dallo stesso senso di precarietà e non appartenenza. Nel frattempo ho aperto il pc, ho appoggiato i piedi sullo sgabello che ha accompagnato la mia pancia che cresceva quest’inverno. Ho a fianco borse e borsine varie, sembra che torni da un lungo viaggio e debba ancora mettere a posto, invece sto già ripartendo.

Suona il telefono. E’ lei, S., la mia amica e la mia capa che non smetterà mai di essere entrambe le cose perché c’è in fondo una specie di giustizia divina in questo senso di appartenenza. Ci sentiamo non troppo, ma abbastanza spesso, ogni volta con l’impressione che dopo un secondo di conversazione sia come essersi parlate dieci minuti e non dieci giorni prima. E’ così fra noi, è sempre stata così, le parole vengono da sole e non vogliono interrompersi. Però questo è un mercoledì ed è l’una del pomeriggio, un giorno e un orario insolito per una telefonata. Lei ha sempre da fare, io anche, ci sentiamo a orari strani, in cui di solito si è in taxi, o si viaggia. Oppure di sabato mentre i mariti collassano sul divano. In più mi sembra sia in Congo questa settimana.

Le rispondo con la voce allegra. Come va, ma non sei in Africa? Sì, sono qui. E. è morto un quarto d’ora fa. 

In quel grigio opaco di umidità che accomuna Parma a Pointe Noire, lei ha di fianco F., l’altra nostra amica stretta. Probabilmente F. le ricorda che sono incinta. Lei fa “ah sì” fuori dalla cornetta, mi chiede se sono seduta. Mi viene da sorridere. E’ così da lei accorgersi di avere tirato una bomba con un minuto di differita rispetto al reale. Non mi vergogno nemmeno di sorridere, tanto non è vero. Non può essere vera questa telefonata e non lo sarà per i prossimi due o tre giorni, nonostante lo dica e lo ripeta al telefono alle persone che devono saperlo, malgrado venga chiamata perché lo sanno tutti che gli voglio bene. La consapevolezza arriva pian piano. 
Sono le sue fotografie che cominciano a girare via mail da uno all’altro. E. in vacanza, E. al mio matrimonio, E. per lavoro in Basilicata in una mattina gelata, E. con la faccia da matto che mangia un tramezzino in una stupida foto del cellulare, E. istituzionale ma con la giacca di velluto e le mani in tasca.

E. è morto come cade una foglia fuori dall’autunno. Colpita da un gatto che salta, per un gesto maldestro del giardiniere. Per sbaglio. E’ morto a Roma che non gli piaceva accanto a una persona che gli piaceva molto. E’ morto al lavoro anche se la sua vita non ha avuto il lavoro al centro dei suoi pensieri. E’ morto in un modo indiscutibile e netto che contrasta con la sua ricerca della mezza misura e con la lotta interiore che ha sempre condotto con il se stesso estremo e rabbioso che a volte emergeva quando si superava il suo limite. Soprattutto è morto con troppi progetti in testa e con vite parallele ancora da esplorare, dopo aver ricevuto alcune soddisfazioni, ma non tutte quelle che si aspettava e che, con il senno dell’allora e anche con quello del poi, si era meritato. 

Una non gliel’ho data io e, appena mi sono resa conto che quello che mi aveva detto S. era vero, me ne sono dispiaciuta.

Quando me ne sono andata dall’ufficio, quell’ultimo giorno di meno di un lungo anno fa, mi ha dovuto lasciare il suo granello di sabbia perché ci riflettessi come fa un’ostrica nel costruire la perla. Lo faceva spesso, di volerti salutare con una frase ad effetto e con lo sguardo storto e malizioso del bel ragazzo che è sicuramente stato. Non sempre gli riusciva il gioco, ma quel giorno avevo il cuore tenero e quindi il messaggio entrò e restò lì. Mi chiese di scrivergli se gli avevo lasciato qualcosa, di fargli sapere se c’era un suo insegnamento che mi portavo con me. Io risposi di sì, che gli avrei scritto. “L’avevo chiesto anche a un’altra persona – mi disse – non l’ho mai più sentita”. Non ho dimenticato né le parole né la malinconia del tono, ci pensavo spesso.
Io sono come quell’altra persona, non ho mantenuto la promessa. Non posso nemmeno dire che non ho fatto in tempo, perché se lui fosse vivo probabilmente sarei ancora qui a procrastinare, è solo la sua morte che rende ineluttabile quanto è successo e inutile chiedersi se un giorno avrei mai aperto la mail e digitato il suo indirizzo.
Posso giustificarmi dicendo che è stato un anno difficile, che ho cambiato città, clima, azienda, che ho scoperto la solitudine e la non appartenenza e che nel frattempo ho fabbricato una bambina, però un’ora l’ho sicuramente avuta per scrivere a E., e non l’ho fatto. Ho guardato moltissimi stupidi programmi televisi, ho letto inutili post su internet, ho parlato al telefono con molte persone inutili e persino con lui, ma non gli ho scritto. E’ l’illusione che ci sia sempre tempo, che si possa sempre recuperare, è l’egoismo di essere chiusi nella propria vita e non riuscire a mettere in fila le cose che contano. Sono certa di averlo deluso e non posso farci niente, ormai. 

Il paradosso è che con il cambio di prospettiva che la morte impone ho finalmente capito cosa mi chiedeva e ora potrei rispondere, perché è finito l’imbarazzo di dovergli dire la verità. E. – gli direi - quando mi hai chiesto di scriverti io ho provato a elencare mentalmente i tuoi insegnamenti. Solo che allora li ho trovati tutti sbagliati e anche ora faccio fatica a tenermeli addosso.
Mi diceva sempre di mediare, di trovare un equilibrio fra vita lavorativa e vita privata. Lo diceva a una persona che non è mai riuscita nemmeno a concepire che ci potessero essere due vite diverse, spazi differenziati per ogni sé. Mi diceva di non correre, perché siamo tutti impegnati in una maratona e non in una cento metri, mentre io impazzivo per un certo suo rimandare e non risolvere. Mi diceva di badare alle relazioni e non solo ai risultati e io questo non lo so fare, anche se la vita è un gioco ripetuto e quindi non ci si può sempre permettere di buttare in aria le carte. Mi diceva di tenere conto della politica in azienda, quando per me la dietrologia è sempre contata molto poco e non ho mai avuto paura di pestare i piedi a nessuno. Mi mostrava in riunione l’arte di narcotizzare il prossimo perché non arrivassero richieste almeno per un po’, non importava se prima o poi ogni cosa non risolta sarebbe riaffiorata come un cadavere nel fiume. Cercava continuamente di capire cosa potevamo lasciare andare senza danno, cosa era un male necessario facessimo noi, mentre io provavo entusiasmo sincero a ogni nuovo progetto che ci arrivava in casa.
Pensavo che E. volesse sentirsi riconoscere da me questi insegnamenti, che volesse che io gli dicessi che aveva ragione e che avrei recepito i suoi consigli. Non potevo scrivergli che l’avevo fatto né che ci avrei lavorato in futuro, perché, allora come oggi, trovo che tutto questo non faccia parte di me e dell’epoca in cui vivo. Mi sembra che sia finita l’era geologica per questo stare al mondo cercando di non bruciarsi, che di uomini d’azienda come lui non ce ne possano essere più. Mi diceva sempre che bisogna sapere se sì è nati con le infradito o con gli stivali di gomma, perché se si hanno gli stivali si può pestare qualunque merda, con le ciabatte occorre stare attenti. Forse oggi non ci sono più stivali di gomma per nessuno, oppure in fondo si può pestare qualche merda e restare puliti lo stesso. La vita cauta di chi guarda dove mette i piedi non si addice a me e probabilmente non va più bene per il mondo. Non penso che sia un elemento necessariamente positivo, sia chiaro, sono solo convinta che sia così.
E. rappresenta un modo di pensare, di vivere, di essere lavoratore che va estinguendosi piano piano, almeno nelle aziende che vedo. Il suo modo di essere non completamente fatto di tecnica, ma non solo costruito sulla parola, pesante e leggero al contempo, ha un ché di anacronistico e disfunzionale nella rigidità degli organigrammi. Il suo essere fluido e versatile e spendibile in posti e con gente diversa non riesce più a essere un valore a sé. La sua dedizione consapevole del diritto, non illimitata per quanto non limitata, non può controbilanciare la schiera di limoncini pronti da spremere che il mercato del lavoro offre ogni giorno. La logica della carriera lineare e di lungo periodo che ha improntato la sua vita è stata velocemente dimenticata e sembra oggi una leggenda, un ricordo di un’epoca andata.
Per questo sarebbe stato bello scrivergli che avevo imparato da lui un modo di stare al mondo e di lavorare. Non lo potevo fare e forse per questo non l’ho fatto, per non dovergli dire tutto quello che oggi mi viene così naturale scrivere. Mi dispiace, E., sarò sempre estrema, lavorerò tantissimo e con tutta l’anima o prenderò due anni di nulla per crescere mia figlia, non cercherò un compromesso virtuoso fra interesse e passione, non riuscirò mai a non farmi calpestare nei miei diritti né a rivendicare un percorso di crescita che sia fatto per durare giurando fedeltà a un’azienda. Non riuscirò a interessarmi davvero alla politica locale, né a vedere segni premonitori in una mail o nel sorriso di un direttore. 

La cosa che adesso mi fa salire un po’ le lacrime agli occhi è aver capito solo ora che quella che voleva da me non era la rassicurazione di un mentore nei confronti di una discepola. Dentro di sé sapeva che non avrei mai accettato insegnamenti professionali da un maschio più grande di me. Sapeva anche che non avrei mai davvero ascoltato il parere di nessuno che non fosse S.
Ha patito i miei sfoghi contro di lei e probabilmente quelli di lei contro di me durante quella crisi profonda che ha poi segnato il mio allontanarmi, forse sogghignando fra i baffi da gatto di quel suo Romeo a cui è sempre assomigliato, con la consapevolezza che potevamo dire quello che volevamo, ma c’era comunque un qualcosa per cui ogni sua parola sarebbe stata inutile. Non ha mai pensato davvero che io potessi trasformarmi in una maratoneta riflessiva, non mi ha mai voluta diversa da com’ero.

Allora cos’ho imparato da te, amico che se n’è andato in modo incongruo? Cosa mi hai dato?
Oggi mi viene in mente che mi hai regalato delle talee di gelso fuori stagione in cambio di un cucciolo di glicine, per l’orgoglio del tuo giardino di condominio che si specchia così bene con il mio. Non sono sopravvissute, ma mi sarebbe piaciuto averle adesso. Abbiamo discusso per mesi di come portare nel tuo cortile una magnolia che la quarta corsia dell’autostrada voleva estirpare dal giardino di mia madre in campagna e ci siamo scritti a lungo per uno dei tuoi protetti, un migrante ancora senza permesso di soggiorno che volevi trovasse un lavoro per la raccolta della frutta. Mi hai insegnato il prendersi a cuore gli altri e le cose pubbliche.
Abbiamo riso di aerei in ritardo e della tua conoscenza pluriennale delle hostess della tratta Roma – Milano. Ti ho immaginato al cinema da solo nelle serate di trasferta, o nelle librerie con cucina ad ascoltare letture di poetesse sconosciute. Mi hai insegnato che si può essere socievoli con la leggerezza di chi di fondo sta bene anche da solo e che saper stare al mondo, con un’urbanità spontanea perché costruita negli anni, è un valore e una chiave che apre molte porte. 

La risposta più fonda, però, sta nel tuo funerale.
E’ un sabato di maggio che sembra novembre sul sagrato del Duomo di Lodi. Quella notte la Pianura Padana sarà colpita dal terremoto e il clima stantio della tragedia è già nell’aria. Piove mentre arriva l’auto con la tua cassa, piove mentre se ne va. Nel mezzo solo cielo basso e nuvole e il respiro mozzato di un pancione ormai grande e ingombrante. La piazza è piena di gente silenziosa. I tuoi figli e tua moglie sono belli e luminosi in mezzo a tutte quelle facce grigie e io capisco il sorriso che ti ho sempre visto spuntare al telefono quando parlavi con loro, andando a mensa o tornando in taxi da qualche parte. Non sanno, non credono, non possono sapere come sarà domani.
Noi – e in quel noi sta tutto il senso del mondo – stiamo tutti vicini come pulcini bagnati. Abbiamo bisogno di contatto fisico, ci cerchiamo le mani, mentre l’onda dell’emozione è così forte che rende dieci centimetri più bassi. A mio marito, così come a chiunque ci sappia guardare, l’evidenza di quel noi salta subito agli occhi. In un mondo che si disgrega ci sono persone che si appartengono, perché hanno una storia in comune da raccontarsi, fatta di tappe su cui ognuna di loro può fare la staffetta.
E’ un caffè prima di entrare, in cui quattro ragazze ormai cresciute provano a parlare di smalti per distrarsi e invece vedono l’una nell’altra com’erano a vent’anni, quando per la prima volta le hai chiamate colleghe e loro non c’erano abituate. E pensano che tutto quello che ha senso è ritrovarsi e lavorare di nuovo insieme, anche se non sanno per far cosa.
Va molto al di là del vissuto lavorativo, è aneddoti, storie, battute. E’ il Pianeta Papalla su cui stanno tutti quanti tranne noi, è l’essersi presi in giro mille volte sull’ipocondria senza sapere quanto sarebbe stata inutile, sulle storielle del militare, sulle avventure di un collega sfortunato, sulla malizia di una battuta, sulla fatica di una trasferta, su un ragazzotto che arriva a far parte del gruppo e scatta subito la competizione come fra i galli nel pollaio.
E’ la dolcezza di stare attenti a non citare mai l’età, che è tasto sensibile, è la delicatezza dei brufoli o della ciccia su cui non si è mai soffermato lo sguardo. E’ il caffè della mattina e l’ultimo ciao veloce della sera, la chiacchiera troncata a metà perché sono già le nove ed è ora di andare a casa, non c’è tempo per parlare ancora.

E., da te ho imparato che il modo migliore per rubare una ruspa è scavare una buca, poi farcela cadere dentro e ricoprirla, per tirarla fuori di nuovo mesi dopo, quando nessuno la cerca più. Perché altrimenti basta un elicottero e ti beccano subito. Solo che con te, con noi, ha funzionato al contrario. Appena ti sei nascosto è diventato evidente cosa manca. Quando ci siamo alzati in volo e abbiamo guardato le cose da un’altra prospettiva è stato immediatamente chiaro a tutti cosa non c’era e perché quello che non c’era era così importante. Abbiamo capito che non c’è tempo, che devi costruire finché puoi e finché c’è la ruspa, perché poi all’improvviso manca e tutto rimane come sospeso.
Forse, dopo questa sfilza di prove e di errori, troveremo la nostra strada. Grazie anche a te.

martedì 5 giugno 2012

Zucchina power

Lo strano clima freddo e piovoso di quest'anno ha ritardato tutto di un mese, ma il risultato finale, lo stupore per l'esplosione delle foglie e dei fiori di questa pianta speciale non cambia.
W la vita e W la zucchina!