lunedì 4 agosto 2014

Di portinaie, fioristi e quotidianita'

Ogni mattina vado a prendere il motorino per andare al lavoro nel garage dietro casa. I vetri di questo edificio industriale li vedo anche dal giardino, un immenso pallone da tennis che luccica con il sole del tramonto, d'estate.
Dal piano sopraelevato, dove dorme lo scooter, vedo le cime dei miei alberi, ormai così grandi che non li riconoscereste più. Gatto Misa viene a salutarmi dai vetri, mi chiama più volte perché dopo quasi dieci anni ancora non si capacita che io esca la mattina per andare a lavorare. In realtà il suo sconcerto dura poco, perché vede presto qualche suo amico nemico gatto di tetti e va a controllarlo in qualche altro angolo di quell'immenso paradiso per felini che restano i dintorni di casa nostra.
Mentre mi metto il casco poggio la borsa tolgo il cavalletto ho mille pensieri per la testa. Ci sara' troppo presto Leda da andare a prendere all'asilo, mentre in ufficio ancora troppe cose si staranno agitando, i ragazzi saranno indipendenti e avranno bisogno di tutto, chissà se domani ci sara' ancora bisogno del nostro inutile, ridicolmente rigoroso, bellissimo produrre. Ci saranno la spesa e il parchetto e questo agitarsi che mi lascerà stremata a sera, ma avrà dato alla bambina e alle piante qualche millimetro di altezza in più, a sei persone un pezzettino di stipendio, a me e al coniuge il senso di un altro mattone in questa vita che abbiamo scelto nella sua fatica e nel suo splendore.
Mentre scendo al rampa guardo la portinaia dello stabile accanto a cui sorge il garage.
Ha i capelli molto corti delle donne risolute, biondi paglia di una tintura fatta in casa per non privarsi di quell'unico vezzo. Porta spesso camicione lunghe, di lino, stirate e bianche, comperate dai cinesi e tenute addosso con un'eleganza che non credo avrò mai, anche se mi sforzo come lei di comperare vestiti a poco prezzo solo per dimostrare che non ho bisogno di tagli da stilista per essere presentabile. Ha una faccia larga e aperta, una faccia da dura, ma con un bel modo di salutare e dare del tu, un po' ruvido, da una che non da' confidenza come niente, ma capace di rispetto per chi sembra fare del proprio meglio per fare la sua vita, giorno dopo giorno.
Spesso la trovo con le mani e il tronco tuffati nei bidoni marroni dell'umido, e chissà come fa a uscirne sempre pulita.
Ne risale con le mani piene di fiori.
Mazzi interi, coni gambi ancor tutti avvolti stretti stretti in cerchi concentrici, povere vite recise che muoiono piano abbracciandosi forte. A volte sofferenti, i bordi dei petali già come carta crespa marrone, a volte freschi come appena tolti dall'acqua.
Li prende senza sorridere, come una che fa il suo dovere e li porta nel suo gabbiotto da portiera, dove li dispone in vasi che sembrano usciti da un salotto di Fogazzaro.
Nei secchi marroni trova anche ibisco rossi e gialli, piante senza fiori che fatico a riconoscere, roselline in quantità industriali e kalanchoe annegate d'acqua. Anche quelle raccoglie, con l'aria scocciata di chi accoglie un altro pellegrino quando ha già chiuso la porta dell'albergo da un po', ma e' troppo gentile per lasciarlo sulla strada.
Un giorno mi sono fermata e abbiamo parlato un secondo, con lo stesso sdegno, del fiorista in franchising all'angolo, gestito da gente senza cuore che tratta i fiori come se fossero yogurt, che poi il paragone non e' giusto, perché anche quelli sono vivi, buttandoli come se avessero scritto sopra una data di scadenza.
Persone che gettano mazzi interi incuranti della bellezza di una rosa che sfiorisce, di un tulipano che perde l'energia che tiene chiusi i suoi petali, solo perché non sono riusciti a venderli e sono nauseati e non vogliono portarli a casa a finire la loro vita mozzata.
Gente che la mattina innaffia a caso come se ogni pianta volesse la stessa quantità d'acqua, provocando funghi e marciumi radicali così difficili da estirpare, mentre delicati fiori di vetro annaspano in attesa delle gocce loro concesse.
Fioristi senza amore che non spostano una fucsia dall'ora della canicola il pieno sole, per poi indignarsi quando lei fa cadere le sue delicate campanelle.
E' stato un secondo, uno scuotere la testa fugace, una condivisione rapida delle storture del mondo. Poi io me ne sono andata, lei ha continuato il suo lavoro.
Ogni giorno dopo quello ci salutiamo con più piacere.
A me torna in mente pepetrolio e questa storia da scrivere.
Perché non ho tempo per prendere in mano la tavoletta e buttare giu' parole non funzionali, perché temo l'invasione barbarica di mamme blogger e di tuttologi da pagine digitali.
Pero' mi spiace perdere lo sguardo sulle piccole bellezze del quotidiano che mi aveva regalato questo esercizio di ormai due anni fa.
E quella Ledaspina che scriveva qui sopra per cambiare il suo modo di vivere esiste ancora, anche se e' stato un cambiamento più travolgente di quello che osasse immaginare.
Allora oggi, che sono in vacanza, mi riprometto di raccontarvi di nuovo alcune piccole storie di portinaie e fiorai cattivi, di gatti e di piante salvate.
Perdonatemi se ogni tanto mi scapperà qualche racconto su Leda. Lo so che e' una bambina come tante altre e che al mondo siamo sei miliardi, ma lei e' la più speciale del mondo e l'unica nel suo genere, solo perché e' la mia.
Ci scapperà anche qualche racconto di lavoro, di scelte che tornano e ritornano e persone che restano parte della mia vita, di altre che se ne vanno, di incontri fra generazioni.
Non dimenticherò che a voi interessano le ortensie, gli afidi e le avventure del giardino, perché anche a me continua a importare di come difendere tutto dai bruchi senza uccidere le farfalle.
Portate pazienza e vediamo se in qualche modo riuscirò a tornare da voi, e da me.

mercoledì 16 gennaio 2013

Il ritorno di Leda (quella grande)

Dal 15 luglio c'e' qui Leda piccola.
E' una produttrice di contenuto pazzesca. Quanto la gravidanza non passava mai, questi sei mesi e un giorno sono volati. L'esclusività sta per finire, fra pochi giorni riprenderò a lavorare e Mademoiselle Criceto (soprannome meritato per le guance che sembrano contenere noccioline, invece sono solo tonde) ha cominciato lunedì scorso ad andare al nido.
Oggi ero triste.
Perché e' rimasta un'ora e mezzo a giocare tranquilla e curiosa prima di accorgersi che me n'ero andata.
Perché aspettavo mia mamma in visita che non e' potuta venire.
Perché la mia amica B non c'era e nemmeno il gruppo di mamme e bambini del Consultorio.
Perché non so come faro' a interessarmi di nuovo ai giochi degli adulti che, come sapete, già mi avevano stufata prima che arrivasse il criceto, figuratevi ora.
Pero' ero fuori con Leda Piccola (Ellepi, d'ora in poi) che dormiva nel passeggino e c'era una bella aria tersa, perché non lontano e' venuta la neve.
Mi sono fermata in un negozio qualunque e ho comperato tre violette e tre primule. Povere piantine di serra che non so nemmeno se resisteranno, neppure molto belle, a dire la verità.
Ma sono piantine. Le ho portate a casa, tolte dai vasetti ridicolmente piccoli. Ho messo le mani finalmente senza guanti nella terra di vecchie cassette e le ho rinvasate per bene, canticchiando e spiegando a Ellepi che questo e' quello che fa star bene la mamma.
Le ho messe fuori dalla finestra, dove posso vederle al mattino, con sotto l'elleboro dello scorso anno che ancora non vuol fiorire.
Ho vuotato un vasetto che conteneva una petunia morta. Ho tagliato dei rametti sparsi. Ho riavuto la sensazione che un lavoretto tirasse l'altro, quel senso di urgenza e cura che conosco bene e che da molto tempo non riuscivo più ad applicare a nulla che non fosse la mia bimba.
Ho perso tempo dietro al verde dimenticandomi dello scorrere dei minuti, che sarebbero stati ore se le portefinestre aperte sul giardino non avessero messo a rischio la salute del criceto.
Mi sono sentita io per la prima volta dopo molto tempo.
Bentornata a me e a qualche timido fiore nel mio giardino.




domenica 8 luglio 2012

Cosa non fare nel vostro orto in vaso

Premetto che questa non e' l'estate dell'orto.
Per via della matrioskina in pancia da 9 mesi ormai abbondanti non posso toccare la terra se non con i guanti, cosa aberrante, ne converrete.
Per tutti i lavori semipesanti - spostare vasi e cassette, rabboccare le innaffiature con i miei 20 kg di annaffiatoio eccetera devo affidarmi al riluttante consorte, ovviamente dare pesticidi non se ne parla e nemmeno andar per campi a raccogliere ortiche.
Insomma, ho trascurato orribilmente l'orto, sperando che guardarlo con amore, togliere le erbacce e mettere bacchette di sostegno bastasse.
Devo anche premettere che, d'altra parte, quest'anno avevo fatto le cose con ambizione. Solo coltivazione da seme, niente piantine comperate fatte e grandi cassette (100 cm per 40 circa) dove ospitare le piante.
Infine, a mia parziale giustificazione, la stagione e' stata odiosa: pioggia e solo pioggia fino a giugno, poi le ondate di caldo umido a cui quest'anno hanno persino dato nomi mitologici, che hanno abbacchiato tremendamente me, la mia pancia e le mie piante, che sono passate dai funghi agli afidi senza soluzione di continuità.
Fatto questo quadro spero oggettivo, passo ai risultati.
Pomodori: ho usato i semi delle mie piante dell'anno scorso. Posso assicurare e provare con testimonianze fotografiche dell'epoca che si trattava di cuori di bue. Ora: le piante sono cresciute, anche se lentamente e con energie imparagonabili rispetto allo scorso anno, ma i frutti sono pomodori perini, tra l'altro verdi e amari come il veleno. Non so se mai diverranno rossi e mangiabili. Mio suocero aveva abbondantemente criticato la mia scelta di tenere i semi dello scorso anno, boforchiando qualcosa a proposito del fatto che le piante sono tutte ibridate e che quindi non avrei avuto frutti. Mi rifiuto di dargli ragione, ma l'enigma dei pomodori che cambiano varietà non e' risolto.
Peperoni: gli unici che stanno venendo come i deve. Piante molto più piccole e corte dello scorso anno, ma ognuna ha un bel peperone in crescita, per ora verde ma che promette colore. Pochi afidi e nessun fungo, si sono dimostrati belli e resistenti, nonché meno esigenti in fatto di terra e acqua del loro progenitore, il peperone unico dello scorso anno.
Questi non saranno ibridati? Avro' conservato meglio i semi? Mah!
Melanzane: primo esperimento, l'anno scorso non le avevo. Mi avevano detto che erano belle e facili, per il momento non posso confermare. La germinazione dei semi e' stata eterna e difficoltosa, ci hanno messo più di due mesi a uscire quattro foglioline stitiche. Ora sembrano lattughe: enormi foglie verde scuro, ma non un fiore e non un frutto, nonostante le mie volonterose apine che svolazzano intorno alle rose che contornano l'orto. Magari sono solo lente come il peperone lo scorso anno e arriveranno, attendiamo.
Infine, la delusione più grande: le mie zucchine fanno schifo. Sono germinate e fiorite a tempo di record, ma non riescono a portare a termine uno zucchino. Hanno preso una malattia (credo un acaro) che sbianca e fa seccare le foglie, continuano a fare questi meravigliosi fiori gialli ma solo minuscoli fruttini, che muoiono prima di maturare, mentre le piante stentano. Una tristezza senza fine e a cui non trovo soluzione.
Ora passiamo agli errori certi, che non ripeterò:
1. Poca terra nelle cassette. Lo strato di terra che ho messo nelle cassette e' troppo sottile, saranno 40 cm massimo. All'inizio questo ha aiutato, perché sotto le tempeste e i venti di maggio e giugno le giovani piantine sono state protette e sono sopravvissute, ora pero' penso che avere poco spazio per le radici non le aiuti a difendersi dalle malattie.
2. Troppe piante: venendo da seme mi sembravano così fragili che non ho pensato potessero sopravvivere tutte. Ora invece sono troppo fitte, dovrei toglier e qualcuna ma non ho il coraggio, quindi le lascio stentare tutte.
3. Troppo biologico per la stagione. Le rose accanto a prendersi gli afidi e la terra buona non bastano a fronte dei disastri meteo dell'anno. Di fatto il successo dell'estate 2011 era stato in parte fortuna della principiante, in parte una condizione termica meravigliosa, che quest'anno non c'e' stata. In questo caso un po' di chimica aiuterebbe, ma io non me la sento, quindi mi tengo il mio orto stentato.
4. Cura. L'orto, più ancora di tutto il resto, ha bisogno di mani addosso, continuamente. Vuole il contatto fisico, senza guanti e senza toxoplasmosi. Non deve sentire diffidenza. Se i frutti (le more, il ribes, l'uva, pesche e albicocche del cortile) hanno quasi beneficiato del mio lasciarli in pace, del non avermi sempre li' a rabboccare, tagliare e aggiustare, il mio povero orto sente che la priorità e' Leda in pancia e patisce...cercherò di rifarmi, se lei me lo consentirà, fra qualche giorno, quando finalmente questo pomodoro che ho dentro la pancia sarà maturo.
Vi racconterò come procedono tutti gli orti della mia vita.

giovedì 7 giugno 2012

In morte di E.


E’ il 16 maggio, è quasi l’una e sono appena arrivata in ufficio nella città bassotto per l’ultima settimana del mio esilio. “La guerra è finita, almeno per me” mi risuona nelle orecchie, poi penso che è la stessa strofa che cantavo un anno fa lasciando il vecchio lavoro, la vecchia vita, la mia città per venire qui. Penso a quanto è stata breve e inutile questa eterna e utilissima esperienza, quanto poco mi lasci nello stomaco mentre allora andarsene era stato dolore e liberazione e fatica. Quasi un parto. Benedico ancora una volta la bambina che mi si rigira in pancia per avermi salvata, per avermi liberata come quasi tutti i figli penso che facciano prima ancora di nascere.
Sto per andare a pranzo con le ragazze, le uniche sinceramente contente di vedermi perché estranee come me, prese dallo stesso senso di precarietà e non appartenenza. Nel frattempo ho aperto il pc, ho appoggiato i piedi sullo sgabello che ha accompagnato la mia pancia che cresceva quest’inverno. Ho a fianco borse e borsine varie, sembra che torni da un lungo viaggio e debba ancora mettere a posto, invece sto già ripartendo.

Suona il telefono. E’ lei, S., la mia amica e la mia capa che non smetterà mai di essere entrambe le cose perché c’è in fondo una specie di giustizia divina in questo senso di appartenenza. Ci sentiamo non troppo, ma abbastanza spesso, ogni volta con l’impressione che dopo un secondo di conversazione sia come essersi parlate dieci minuti e non dieci giorni prima. E’ così fra noi, è sempre stata così, le parole vengono da sole e non vogliono interrompersi. Però questo è un mercoledì ed è l’una del pomeriggio, un giorno e un orario insolito per una telefonata. Lei ha sempre da fare, io anche, ci sentiamo a orari strani, in cui di solito si è in taxi, o si viaggia. Oppure di sabato mentre i mariti collassano sul divano. In più mi sembra sia in Congo questa settimana.

Le rispondo con la voce allegra. Come va, ma non sei in Africa? Sì, sono qui. E. è morto un quarto d’ora fa. 

In quel grigio opaco di umidità che accomuna Parma a Pointe Noire, lei ha di fianco F., l’altra nostra amica stretta. Probabilmente F. le ricorda che sono incinta. Lei fa “ah sì” fuori dalla cornetta, mi chiede se sono seduta. Mi viene da sorridere. E’ così da lei accorgersi di avere tirato una bomba con un minuto di differita rispetto al reale. Non mi vergogno nemmeno di sorridere, tanto non è vero. Non può essere vera questa telefonata e non lo sarà per i prossimi due o tre giorni, nonostante lo dica e lo ripeta al telefono alle persone che devono saperlo, malgrado venga chiamata perché lo sanno tutti che gli voglio bene. La consapevolezza arriva pian piano. 
Sono le sue fotografie che cominciano a girare via mail da uno all’altro. E. in vacanza, E. al mio matrimonio, E. per lavoro in Basilicata in una mattina gelata, E. con la faccia da matto che mangia un tramezzino in una stupida foto del cellulare, E. istituzionale ma con la giacca di velluto e le mani in tasca.

E. è morto come cade una foglia fuori dall’autunno. Colpita da un gatto che salta, per un gesto maldestro del giardiniere. Per sbaglio. E’ morto a Roma che non gli piaceva accanto a una persona che gli piaceva molto. E’ morto al lavoro anche se la sua vita non ha avuto il lavoro al centro dei suoi pensieri. E’ morto in un modo indiscutibile e netto che contrasta con la sua ricerca della mezza misura e con la lotta interiore che ha sempre condotto con il se stesso estremo e rabbioso che a volte emergeva quando si superava il suo limite. Soprattutto è morto con troppi progetti in testa e con vite parallele ancora da esplorare, dopo aver ricevuto alcune soddisfazioni, ma non tutte quelle che si aspettava e che, con il senno dell’allora e anche con quello del poi, si era meritato. 

Una non gliel’ho data io e, appena mi sono resa conto che quello che mi aveva detto S. era vero, me ne sono dispiaciuta.

Quando me ne sono andata dall’ufficio, quell’ultimo giorno di meno di un lungo anno fa, mi ha dovuto lasciare il suo granello di sabbia perché ci riflettessi come fa un’ostrica nel costruire la perla. Lo faceva spesso, di volerti salutare con una frase ad effetto e con lo sguardo storto e malizioso del bel ragazzo che è sicuramente stato. Non sempre gli riusciva il gioco, ma quel giorno avevo il cuore tenero e quindi il messaggio entrò e restò lì. Mi chiese di scrivergli se gli avevo lasciato qualcosa, di fargli sapere se c’era un suo insegnamento che mi portavo con me. Io risposi di sì, che gli avrei scritto. “L’avevo chiesto anche a un’altra persona – mi disse – non l’ho mai più sentita”. Non ho dimenticato né le parole né la malinconia del tono, ci pensavo spesso.
Io sono come quell’altra persona, non ho mantenuto la promessa. Non posso nemmeno dire che non ho fatto in tempo, perché se lui fosse vivo probabilmente sarei ancora qui a procrastinare, è solo la sua morte che rende ineluttabile quanto è successo e inutile chiedersi se un giorno avrei mai aperto la mail e digitato il suo indirizzo.
Posso giustificarmi dicendo che è stato un anno difficile, che ho cambiato città, clima, azienda, che ho scoperto la solitudine e la non appartenenza e che nel frattempo ho fabbricato una bambina, però un’ora l’ho sicuramente avuta per scrivere a E., e non l’ho fatto. Ho guardato moltissimi stupidi programmi televisi, ho letto inutili post su internet, ho parlato al telefono con molte persone inutili e persino con lui, ma non gli ho scritto. E’ l’illusione che ci sia sempre tempo, che si possa sempre recuperare, è l’egoismo di essere chiusi nella propria vita e non riuscire a mettere in fila le cose che contano. Sono certa di averlo deluso e non posso farci niente, ormai. 

Il paradosso è che con il cambio di prospettiva che la morte impone ho finalmente capito cosa mi chiedeva e ora potrei rispondere, perché è finito l’imbarazzo di dovergli dire la verità. E. – gli direi - quando mi hai chiesto di scriverti io ho provato a elencare mentalmente i tuoi insegnamenti. Solo che allora li ho trovati tutti sbagliati e anche ora faccio fatica a tenermeli addosso.
Mi diceva sempre di mediare, di trovare un equilibrio fra vita lavorativa e vita privata. Lo diceva a una persona che non è mai riuscita nemmeno a concepire che ci potessero essere due vite diverse, spazi differenziati per ogni sé. Mi diceva di non correre, perché siamo tutti impegnati in una maratona e non in una cento metri, mentre io impazzivo per un certo suo rimandare e non risolvere. Mi diceva di badare alle relazioni e non solo ai risultati e io questo non lo so fare, anche se la vita è un gioco ripetuto e quindi non ci si può sempre permettere di buttare in aria le carte. Mi diceva di tenere conto della politica in azienda, quando per me la dietrologia è sempre contata molto poco e non ho mai avuto paura di pestare i piedi a nessuno. Mi mostrava in riunione l’arte di narcotizzare il prossimo perché non arrivassero richieste almeno per un po’, non importava se prima o poi ogni cosa non risolta sarebbe riaffiorata come un cadavere nel fiume. Cercava continuamente di capire cosa potevamo lasciare andare senza danno, cosa era un male necessario facessimo noi, mentre io provavo entusiasmo sincero a ogni nuovo progetto che ci arrivava in casa.
Pensavo che E. volesse sentirsi riconoscere da me questi insegnamenti, che volesse che io gli dicessi che aveva ragione e che avrei recepito i suoi consigli. Non potevo scrivergli che l’avevo fatto né che ci avrei lavorato in futuro, perché, allora come oggi, trovo che tutto questo non faccia parte di me e dell’epoca in cui vivo. Mi sembra che sia finita l’era geologica per questo stare al mondo cercando di non bruciarsi, che di uomini d’azienda come lui non ce ne possano essere più. Mi diceva sempre che bisogna sapere se sì è nati con le infradito o con gli stivali di gomma, perché se si hanno gli stivali si può pestare qualunque merda, con le ciabatte occorre stare attenti. Forse oggi non ci sono più stivali di gomma per nessuno, oppure in fondo si può pestare qualche merda e restare puliti lo stesso. La vita cauta di chi guarda dove mette i piedi non si addice a me e probabilmente non va più bene per il mondo. Non penso che sia un elemento necessariamente positivo, sia chiaro, sono solo convinta che sia così.
E. rappresenta un modo di pensare, di vivere, di essere lavoratore che va estinguendosi piano piano, almeno nelle aziende che vedo. Il suo modo di essere non completamente fatto di tecnica, ma non solo costruito sulla parola, pesante e leggero al contempo, ha un ché di anacronistico e disfunzionale nella rigidità degli organigrammi. Il suo essere fluido e versatile e spendibile in posti e con gente diversa non riesce più a essere un valore a sé. La sua dedizione consapevole del diritto, non illimitata per quanto non limitata, non può controbilanciare la schiera di limoncini pronti da spremere che il mercato del lavoro offre ogni giorno. La logica della carriera lineare e di lungo periodo che ha improntato la sua vita è stata velocemente dimenticata e sembra oggi una leggenda, un ricordo di un’epoca andata.
Per questo sarebbe stato bello scrivergli che avevo imparato da lui un modo di stare al mondo e di lavorare. Non lo potevo fare e forse per questo non l’ho fatto, per non dovergli dire tutto quello che oggi mi viene così naturale scrivere. Mi dispiace, E., sarò sempre estrema, lavorerò tantissimo e con tutta l’anima o prenderò due anni di nulla per crescere mia figlia, non cercherò un compromesso virtuoso fra interesse e passione, non riuscirò mai a non farmi calpestare nei miei diritti né a rivendicare un percorso di crescita che sia fatto per durare giurando fedeltà a un’azienda. Non riuscirò a interessarmi davvero alla politica locale, né a vedere segni premonitori in una mail o nel sorriso di un direttore. 

La cosa che adesso mi fa salire un po’ le lacrime agli occhi è aver capito solo ora che quella che voleva da me non era la rassicurazione di un mentore nei confronti di una discepola. Dentro di sé sapeva che non avrei mai accettato insegnamenti professionali da un maschio più grande di me. Sapeva anche che non avrei mai davvero ascoltato il parere di nessuno che non fosse S.
Ha patito i miei sfoghi contro di lei e probabilmente quelli di lei contro di me durante quella crisi profonda che ha poi segnato il mio allontanarmi, forse sogghignando fra i baffi da gatto di quel suo Romeo a cui è sempre assomigliato, con la consapevolezza che potevamo dire quello che volevamo, ma c’era comunque un qualcosa per cui ogni sua parola sarebbe stata inutile. Non ha mai pensato davvero che io potessi trasformarmi in una maratoneta riflessiva, non mi ha mai voluta diversa da com’ero.

Allora cos’ho imparato da te, amico che se n’è andato in modo incongruo? Cosa mi hai dato?
Oggi mi viene in mente che mi hai regalato delle talee di gelso fuori stagione in cambio di un cucciolo di glicine, per l’orgoglio del tuo giardino di condominio che si specchia così bene con il mio. Non sono sopravvissute, ma mi sarebbe piaciuto averle adesso. Abbiamo discusso per mesi di come portare nel tuo cortile una magnolia che la quarta corsia dell’autostrada voleva estirpare dal giardino di mia madre in campagna e ci siamo scritti a lungo per uno dei tuoi protetti, un migrante ancora senza permesso di soggiorno che volevi trovasse un lavoro per la raccolta della frutta. Mi hai insegnato il prendersi a cuore gli altri e le cose pubbliche.
Abbiamo riso di aerei in ritardo e della tua conoscenza pluriennale delle hostess della tratta Roma – Milano. Ti ho immaginato al cinema da solo nelle serate di trasferta, o nelle librerie con cucina ad ascoltare letture di poetesse sconosciute. Mi hai insegnato che si può essere socievoli con la leggerezza di chi di fondo sta bene anche da solo e che saper stare al mondo, con un’urbanità spontanea perché costruita negli anni, è un valore e una chiave che apre molte porte. 

La risposta più fonda, però, sta nel tuo funerale.
E’ un sabato di maggio che sembra novembre sul sagrato del Duomo di Lodi. Quella notte la Pianura Padana sarà colpita dal terremoto e il clima stantio della tragedia è già nell’aria. Piove mentre arriva l’auto con la tua cassa, piove mentre se ne va. Nel mezzo solo cielo basso e nuvole e il respiro mozzato di un pancione ormai grande e ingombrante. La piazza è piena di gente silenziosa. I tuoi figli e tua moglie sono belli e luminosi in mezzo a tutte quelle facce grigie e io capisco il sorriso che ti ho sempre visto spuntare al telefono quando parlavi con loro, andando a mensa o tornando in taxi da qualche parte. Non sanno, non credono, non possono sapere come sarà domani.
Noi – e in quel noi sta tutto il senso del mondo – stiamo tutti vicini come pulcini bagnati. Abbiamo bisogno di contatto fisico, ci cerchiamo le mani, mentre l’onda dell’emozione è così forte che rende dieci centimetri più bassi. A mio marito, così come a chiunque ci sappia guardare, l’evidenza di quel noi salta subito agli occhi. In un mondo che si disgrega ci sono persone che si appartengono, perché hanno una storia in comune da raccontarsi, fatta di tappe su cui ognuna di loro può fare la staffetta.
E’ un caffè prima di entrare, in cui quattro ragazze ormai cresciute provano a parlare di smalti per distrarsi e invece vedono l’una nell’altra com’erano a vent’anni, quando per la prima volta le hai chiamate colleghe e loro non c’erano abituate. E pensano che tutto quello che ha senso è ritrovarsi e lavorare di nuovo insieme, anche se non sanno per far cosa.
Va molto al di là del vissuto lavorativo, è aneddoti, storie, battute. E’ il Pianeta Papalla su cui stanno tutti quanti tranne noi, è l’essersi presi in giro mille volte sull’ipocondria senza sapere quanto sarebbe stata inutile, sulle storielle del militare, sulle avventure di un collega sfortunato, sulla malizia di una battuta, sulla fatica di una trasferta, su un ragazzotto che arriva a far parte del gruppo e scatta subito la competizione come fra i galli nel pollaio.
E’ la dolcezza di stare attenti a non citare mai l’età, che è tasto sensibile, è la delicatezza dei brufoli o della ciccia su cui non si è mai soffermato lo sguardo. E’ il caffè della mattina e l’ultimo ciao veloce della sera, la chiacchiera troncata a metà perché sono già le nove ed è ora di andare a casa, non c’è tempo per parlare ancora.

E., da te ho imparato che il modo migliore per rubare una ruspa è scavare una buca, poi farcela cadere dentro e ricoprirla, per tirarla fuori di nuovo mesi dopo, quando nessuno la cerca più. Perché altrimenti basta un elicottero e ti beccano subito. Solo che con te, con noi, ha funzionato al contrario. Appena ti sei nascosto è diventato evidente cosa manca. Quando ci siamo alzati in volo e abbiamo guardato le cose da un’altra prospettiva è stato immediatamente chiaro a tutti cosa non c’era e perché quello che non c’era era così importante. Abbiamo capito che non c’è tempo, che devi costruire finché puoi e finché c’è la ruspa, perché poi all’improvviso manca e tutto rimane come sospeso.
Forse, dopo questa sfilza di prove e di errori, troveremo la nostra strada. Grazie anche a te.

martedì 5 giugno 2012

Zucchina power

Lo strano clima freddo e piovoso di quest'anno ha ritardato tutto di un mese, ma il risultato finale, lo stupore per l'esplosione delle foglie e dei fiori di questa pianta speciale non cambia.
W la vita e W la zucchina!

venerdì 11 maggio 2012

Orticola 2012

Fra i pochi vantaggi dell'attesa c'e' il fatto di essere non dico libera, ma lavoratrice domestica, il venerdì.
Questo vuol dire che se vuoi, se sconfiggi l'arrabbiatura e l'inedia di aver passato la mattina in videoconferenza a parlare a un computer e c'e' il sole puoi andare a fare una tarda pausa pranzo fuori e che ti senti pure straordinariamente brava perché hai fatto una passeggiata, come se bastasse quella a ridurre l'effetto cetaceo della tua ombra riflessa sui muri.
Tutto questo se c'e' Orticola diventa straordinario. Io amo Orticola. Non mi importa se e' la Chelsea de no' artri. Se e' uno sfoggio di ridicoli cappellini da parte di improbabili signore prive di tracce di terra sotto le unghie. Se e' pop e snob allo stesso tempo. Amo che sia maggio, che le aiuole del parco siano nuove nuove e splendenti e che ovunque ci siano le piante più belle, quelle che credevi esistessero solo su Gardenia, quelle che hanno un nome proprio che evoca storie e avventure e invenzioni di uomini e donne che di mestiere curavano immensi giardini.
Quest'anno ho notato tre cose, che metto in ordine senza che sembri una recensione.
C'e' uno spaventoso declino di orto e aromatiche. Dopo due anni in cui se non avevi tre pomodori e una salvia allo stand non ti si filava nessuno, in questa edizione l'orto e' solo educativo, solo da bambini.
Non so se sia perché ormai il giardinaggio da cucina e' diventato una roba da Esselunga, troppo pop anche per i pop-snob oppure perché tutti si sono messi a tirare su l'orto da seme, come - arrancando - mi sono messa a fare io. Fatto sta che volevo una salvia per riprovare dopo il fallimento dello scorso anno e sono tornata indietro a mani vuote.
Seconda considerazione: un sacco di gente si e' messa a vendere piante molto strane. Robe che non hanno bisogno ne' di acqua ne' di terra e volteggiano con le radici aeree appese a fragili cestini, piante grasse che sembrano sassi, erbacee perenni che sembrano secche. C'e' pieno di gente intorno a questi banchi, ma non sembrano amanti dei fiori. E' come essere un appassionato di rettili che da' loro da mangiare topolini vivi. Niente a che vedere con l'amore per le bestie, solo una insana passione o una moda destinata a passare.
Infine, quasi a specchio delle due osservazioni sopra, un grande e meritato ritorno dei fiori normali, quelli di cui tutti sanno il nome, nelle varianti più belle e monotematiche.
Splendidi venditori di sole rose, di ortensie che sembrano dischi volanti, gerani e pelargoni, di peonie lunghe lunghe con un solo fiore.
Trovo che sia una cosa bellissima, che si accompagna a un gusto delle piante in primis perché sono parte di noi, dei ricordi, dell'infanzia, di un immaginario condiviso. Ognuno di noi ha una nonna che coltivava rose, pochi un avo dedito alle sterpaglie o alle piante carnivore, per fortuna.
E' molto meglio descrivere un fiore e sapere che chi hai di fronte riesce a visualizzarlo, ne conosce l'odore e la consistenza delle foglie piuttosto che riempirsi la bocca di parole difficili a cui il prossimo non associa nulla.
Forse e' per questo che ho comprato una rosa, una rosa famosa con un nome proprio. La nuova inquilina del giardino e' una Sans Souci, che avrà il compito di tenere insieme le fioriture gialle dell'arco ereditato con tutti i toni del rosa che circondano l'orto.
E' in boccio, senza neanche un fiore aperto e purtroppo tornando in taxi uno l'ho perduto, ma in pochi giorni sarà aperta e felice, spero, come le sue sorelle.
L'ho portata a casa passeggiando fra bella gente, come un augurio di stare senza pensieri, senza preoccupazioni, nel futuro che mi e ci si apre davanti.

Rosa Sans Souci - Barni