lunedì 5 settembre 2011

Il sogno di un mandarino, e il mio

Se vuoi essere felice per un giorno, prendi moglie. 
Se vuoi essere felice per un mese, ammazza un maiale. 
Se vuoi essere felice per sempre, pianta un giardino. 

Mi perdonino il marito e il maiale se mi sembra uno dei pochi insegnamenti del viaggio in Cina.
E' esistito un tempo in cui i funzionari di un palazzo corrotto e bizantino prima ancora che Bisanzio esistesse ad un certo punto della loro carriera, quando non avevano piu' entusiasmo sufficiente per amministrare, si ritiravano in una citta' chiamata Suzhou. Oppure in qualche altro luogo di quel loro enorme paese.
Si richiudevano in un'autoreclusione che sa tanto dell'attualissimo downshifting, tiravano su qualche muro perimetrale e costruivano un giardino.
Dentro c'era il mondo intero, e quel mondo c'e' ancora, anche se la Cina che c'e' fuori da quei muri non e' piu' quella che i mandarini hanno visto.  Li immagino che escono oltrepassando la soglia alta della loro casa e si guardano intorno perplessi in quel proliferare di cantieri e cemento. Si girano scuotendo la testa e rientrano in paradiso. Acque che scorrono e ristagnano in laghetti piu' piccoli di quello che sembrano, alberi giganteschi potati per essere la scala ridotta di loro stessi, rocce e colline, torri e pagode. Animali e pesci che non si mangiano e come sempre hanno lo sguardo piu' intelligente e consapevole di quello delle persone. Stagionalita' progettate per offrire sempre uno scenario diverso, ogni giorno che passa. Ho visto i giardini dei loti e delle budleje, ma sono gli stessi degli aceri rossi, delle peonie, delle camelie fiorite.
Ogni passo deve essere un quadro. E' una regola di giardinaggio cosi' evoluta, cosi' essenziale, che sembra incredibile che sia uscita dalla mente dei bisnonni di coloro che ho conosciuto io, gente impegnata a distruggere il territorio con l'accanimento casuale del bruco sulla foglia, del virus che finira' per uccidere il suo ospite.
Perfezioni non maniacali, lontane da quella formalizzazione paranoica che mette angoscia invece che serenita'. Tante panchine, tanti punti di sosta, come se contemplare e osservare la quiete in movimento del giardino fosse il senso della vita di chi costruisce. Tunnel e passaggi a zigzag per ingannare benevolmente l'occhio e fargli credere che il giardino non finisca mai, che includa tutto quanto di bello c'e' intorno. E' il paesaggio preso in prestito, un concetto prezioso perche' non implica il furto, ma  il dialogo fra spazio privato e spazio pubblico.
Morbidezza e poesia fatte di conoscenza del clima, dell'umidita' spessa che smorza i colori e fa crescere tutto lanciando liane e riempiendo di felci e bambu' ogni interstizio.
Pazienza e amore per le nebbie della primavera e dell'autunno, che annullano gli spigoli e gli spioventi dei tetti e lasciano solo l'ondeggiare di una foglia, il nuotare lento di una carpa, il cadere di un fiore sullo specchio riflesso di una pagoda.  I giardini di Suzhou insegnano il rispetto per il popolo che li ha voluti e curati e per il tempo che li ha conservati nella loro perfezione che si evolve. Persino la banda dei quattro, che ha distrutto la citta' proibita e i templi, non li ha toccati, non riuscendo a trovare reazionaria la vita che vi scorre.
Non riesco pero' a non chiedermi dove sia finito quel popolo e perche' abbia perso la gioia di vedere un albero crescere.
Forse e' solo un momento.
Ho visto quarantenni rampanti buttare bottiglie di plastica vuote nelle acque dei laghetti.  Ma ho visto anche nonni e bambini seduti a guardare l'acqua in silenzio.
O a farsi guardare da una carpa dagli occhi millenari, ferma immobile in un momento sospeso.   

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