giovedì 23 febbraio 2012

Alla ricerca di un non-modello

Questo è un post difficile e politico.
Quindi lo comincio anche se non so se e quando lo finirò.
Il tema è la parola "modello".

Allora, sembra chiaro ai più che il mondo nord-occidentale (forse si può restringere ancora il campo, di sicuro si può parlare di Europa) ha cominciato a percepire con forza crescente i punti deboli del paradigma di sviluppo che ha dato per scontato fino ad oggi. Questo spero che possiamo dircelo senza approfondire la questione della crisi economica, del crollo - più che annunciato - del welfare come l'abbiamo conosciuto eccetera.
In più, ci sono segnali sempre più forti di insoddisfazione rispetto a come l'individuo si relaziona con la società. Su questo sono molto meno confidente, ma mi sembra proprio così, ho raccontato molte storie in questi mesi che parlavano esattamente di questo. Ve ne posso aggiungere una al giorno. A fianco di persone che vogliono un lavoro a tutti i costi ce ne sono sempre di più che si chiedono quale e, soprattutto, perchè. L'entusiasmo che percepisco per le forme autonome, indipendenti, di guadagnarsi il pane, anche se sono più manuali, più faticose, meno qualificate dal punto di vista della formazione scolastica mi sembra evidente e quasi di massa.
Mio marito mi ha detto "c'e' un articolo sul downshifting sul Corriere, sei arrivata in ritardo.". Invece no, a me interessano le cose di massa, mica i fenomeni emergenti.
L'organizzazione, l'azienda, stringe, lega, fa male. Dà il senso che si stia sprecando la vita a occuparsi di come ci si inserisce in un contesto sociale e organizzato più che a fare cose e risolvere problemi.
Questo la generazione precedente non lo capisce.

Faccio un esempio.
La mia amica ha superato il limite con la sua capa. E' una di quelle persone che immagini non si arrabbieranno mai con gli altri, al massimo con se stesse, invece ha un fondo battagliero e forte e intenso.
Una volta passato il confine ideale della sua rabbia, ha cominciato a farle la guerra sistematicamente, ogni giorno. Su cosa? Su cio' che la sua capa, che ha i capelli bianchi e cinquant'anni, non può nemmeno capire. Sull'assenza di condivisione.
Per un burocrate aziendale della precedente generazione la gestione dell'informazione è potere e il lavoro non serve a ottenere dei risultati, a realizzare delle cose - far crescere una pianta, fare una torta, tirar su una casa - ma a confermare un ruolo all'interno della microsocietà che è il suo mondo. Se il burocrate è sano lo scopo è guadagnare più soldi, ma spesso, molto spesso, non è nemmeno così. Di frequente l'obiettivo del suo comportamento è solo avere un posto un gradino più in alto rispetto al proprio collega, chissa' poi per farci cosa. Condividere, in quest'ottica, è improduttivo, perchè riduce e annacqua una visibilità che deve essere esclusiva. Non importa se è inefficiente per la realizzazione di un'iniziativa, è funzionale all'affermazione del sè. Basta una e-mail non inoltrata, l'omissione di un cc ed e' fatta. Come fra bambini, a fronte di un'azienda, un micromondo che va palesemente a rotoli.
Beh, per la mia amica l'affermazione del sè non ha nulla a che fare con i saluti che riceve nei corridoi dell'azienda. Non e' essere temuta e odiata. Non e' essere invitata per forza e con la bocca storta a una riunione.
Per lei, che è giovane e non sa nemmeno esattamente se ha senso pensare a un cosa fare da grande, tutto ciò che ha senso è riuscire a fare qualcosa di reale, di vero, di appagante ora, per sè e per gli altri. Viene al lavoro per lavorare ed è sorpresa e amareggiata nel vedere che questo non è quello che le viene richiesto.
Lei condivide perchè le serve, perchè pensa sinceramente che diverse teste pensino meglio di una, perchè odia il conflitto inutile che si crea non sull'oggetto ma sul soggetto del compito da fare. Vuole essere serena e con lei gli altri, facendo qualcosa per il mondo, o almeno per il suo. E' convinta, come lo sono io d'altra parte, che nelle pieghe di un'azienda possa scapparci il senso, se quei soldi fatti convincendo qualcuno che mangiare una brioche nel sacchetto di plastica e' meglio che farsi un plumcake vanno, anche se in minima parte, a qualcuno che non ha scelta, perche' non puo' comprare ne' la brioche ne' la farina. Per questo chiama le forze a raccolta.
La capisco perchè è la stessa sensazione che ho io quando apro un giornale di giardini e ho l'impressione che chi ci scrive ignori le piante, la loro salute e la loro provenienza, che quasi consideri fastidioso che siano vive e si preoccupi di tutt'altro.
Lavorare senza condividerne il senso per lei è come per me essere giardinieri senza essere animisti, non so se riesco a spiegarmi.
Comunque.
E' palese che l'insoddisfazione della mia amica non è riservata a una burocrate con i capelli bianchi, si indirizza al suo ruolo all'interno della società - azienda.

Io in questo ci vedo un tratto conduttore del tempo che cambia, della crisi del "modello" (e finalmente sono arrivare a questa parola. Sedetevi perche' e' ancora lunga).
C'è stata un'epoca, o almeno così mi raccontano, in cui i migliori, i più intelligenti, oppure i più volonterosi, si indirizzavano verso la politica, con l'idea che quella contasse davvero, che quello fosse il luogo dove le cose avvenivano e dove si poteva condividere il cambiamento. Poi la spinta in quell'universo si è spenta, a favore di altri interessi.
C'è stata un'epoca, e questa l'ho vissuta, in cui i migliori, i più intelligenti, oppure i più volonterosi, guardavano alle aziende, profit e non profit, con l'idea che là ci fosse innovazione e spazio per fare delle cose. Perchè ci si poteva trovare altra gente in gamba e un contesto costruito apposta per far venire fuori progetti e fatti.
Io, che non sono una dei migliori, non sono fra i più intelligenti, ma sono sicuramente volonterosa, sono andata verso l'impresa perchè mi sembrava che quella fosse l'organizzazione che mi consentiva di contribuire a uno "sviluppo sostenibile", anche a dispetto degli scopi dichiarati dall'organizzazione.
Perche' c'erano i soldi, le risorse, non solo economiche, perchè a forza di briciole e di sottoprodotti si costruisse un futuro migliore per i consumatori e non solo per i clienti.
Oggi ho perso questa convinzione e l'hanno persa quelli che stanno intorno a me (anche se non tutti. Ad esempio mio marito no, per fortuna. Amo stare con l'ultimo dei moicani, da questo punto di vista, perchè in fondo vorrei sbagliarmi).
Il senso di sè legato a un'appartenenza politica, il senso di sè legato a un'appartenenza professionale, tutto questo oggi mi sembra più sfumato e meno definito, come se le persone volessero altro, o volessero tutto.

Siamo ritornati al pane e alle rose? Forse sì. 
Solo che non pretendiamo di attaccarci sopra una bandiera.

Ed eccomi finalmente, dopo questa eterna premessa, al titolo di questo post.
Litigo ormai da mesi con mio marito sul mio, sul nostro futuro.
L'ultima volta è stata alla cena di San Valentino in una latteria vegetariana sabato scorso (che ovviamente non era il 14 febbraio, ma di martedi' sto a bassottiland).
Sono entrata in questo posto e l'ho trovato bellissimo. Mi piaceva la signora che portava in tavola i piatti e ti chiedeva come li avevi trovati, perchè sperimenta. Mi piaceva il posto con pochi tavoli e molte idee, i muri azzurro intenso.
Ho detto incautamente: "Come mi piacerebbe mettere su un posto così".

Un posto dove la gente trova partecipazione senza trovare un partito.
Un posto dove la gente mangia la torta e impara a farla.
Un posto dove la mia vicina che prima di compiere ottant'anni faceva la sarta insegna a far da sè cose che una volta sapevano fare tutti (far l'orlo, mettere una toppa, attaccare i bottoni).
Un posto all'insegna della riduzione dello spreco, dove chi vuole può vedere applicato il principio che fa da filo conduttore al mio nuovo modo di vedere la vita, cioè che per essere felice puoi scegliere se guadagnare sempre di più o far costare la tua giornata di meno pur avendo le stesse cose, o di più.
Un posto dove fai le talee invece di andare al garden center.
Un posto dove pianti i semi e vedi crescere le petunie. Apro una parentesi, appena nate sembrano piccoli funghi, è una cosa molto strana.
Un posto dove bevi un te' in mezzo ai fiori e parli.

Il moicano ha cominciato a farmi domande a raffica su come pensavo di mantenere questo posto, su dove l'avrei fatto, su come avrei pagato l'affitto, su chi avrebbe pagato per quel te' e per le mie poche talee, le mie poche petunie, le mie torte che una volta vengono bene una volta no.

Ho risposto per un po', poi mi sono messa a piangere, perchè ho gli ormoni fragili in questo periodo.
Non riuscivo a dirgli che quelle domande non mi interessavano, che mi facevano star male non perchè non volessi fare un bagno di realtà, ma solo perchè non erano rilevanti, sporcavano le mie frasi, le mie idee, senza portar loro valore. Lui vuole che io faccia un modello, vuole che metta insieme una serie di bisogni che vedo e che so che ci sono, che li appiccichi a un business plan e che ci cavi fuori un esempio di qualcosa che gli altri possono desiderare di fare o di volere.
Vuole che crei un terzo polo, che espressione orrenda, fra "scappo dalla città, la vita, l'amore, le vacche" (con tutto il rispetto e l'amore che porto a chi fa questa scelta) e il managerialismo moicano secondo il quale solo mettendosi tutti insieme in un'organizzazione paramilitare si può fare qualcosa di significativo (con il rispetto e l'amore che porto anche a questi eroi del nostro tempo decadente).
Io sto cercando proprio il contrario. Voglio un non - modello. Voglio vivere facendomi venire idee senza sapere se e come diventeranno mai reali. Voglio cominciare dal mio giardino e dalle relazioni nel mio condominio, per vedere se a quelle si attacca qualcosa. Voglio vedere che pensieri nuovi mi porterà l'essere ancora privo di genere che ho in pancia e che so un giorno mi darà un contributo più utile rispetto ai calci nei reni che mi rifila oggi. Voglio pensare che avrò un posto dove fare torte e vendere fiori perchè le talee si moltiplicheranno a dismisura e così i pomodori e la frutta e non mi interessa oggi che sia un'idea sostenibile, perchè sulla sostenibilità delle cose ho già lavorato troppo a lungo e nella mia testa lo è già.

Forse di non-modelli non ho bisogno soltanto io, ma anche la mia amica che odia la capa e tutti gli altri. Abbiamo bisogno di un momento di pausa creativa, da cui emergeranno approcci più strutturati, mentre ora ci accontentiamo di metter in fila esperienze su una corda da bucato, all'aperto e all'aria buona.
Così è sempre stato fin dall'inizio del mondo. La creazione non esiste, ci sono sempre vecchio e nuovo che vivono insieme in un amalgama di non paradigmi che un giorno un creativo si diverte a nominare, ma dentro cui crescono le cose. Può darsi che non si capisca subito se spuntano funghi o petunie, ma che importa, adesso?

Io in questo momento ho molte lenzuola da stendere, fra cui ci sono questi messaggi. L'essere ancora senza genere ha sicuramente un cestino di mollette con sè, con nuove associazioni, ancoraggi e cose importanti da mettere davanti al resto. Il moicano ci reggerà il filo anche se non capisce ancora, perchè si fida di noi e questo è importante.
Tutto quello che so è qui, ora, in questa attesa di primavera.

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