venerdì 1 luglio 2011

Ode a una sigaretta che non c'e'

Dovete sapere che ho smesso di fumare. 
Fumavo tanto, un pacchetto di diana blu e anche un pacchetto e mezzo, nei giorni particolarmente nervosi. 
Mi alzavo dalla scrivania e andavo a fumare in saletta fumatori. Ci mettevo la meta' del tempo degli altri, pensavo un po', mi facevo un discorsetto nella testa, tornavo piu' lucida e mi risiedevo sulla mia sedia. 
Ho smesso in circostanze totalmente casuali, che vi raccontero' un'altra volta.
Soprattutto ho smesso perche' avevo smesso di fare le scale per non misurare se avevo il fiatone. Ho smesso perche' avevo male alla schiena, come delle fitte di tanto in tanto e pensavo fosse cancro ai polmoni. Ovviamente le fitte, da bravo dolore psicosomatico, sono scomparse con l'ultima sigaretta. Ho smesso perche' a ogni colpo di tosse controllavo di non avere un gusto metallico in bocca, perche' temevo di sputare sangue. Ho smesso perche' ho la pelle trasparente, vedevo le piccole vene sotto e monitoravo il loro diventare viola, perche' ci vedevo dentro i prodromi di una morte cianotica.
Quella che ha fatto mio nonno, che mia madre mi raccontava ogni volta che mi vedeva accendere una sigaretta. "A ogni crisi respiratoria che superava mi diceva tu non sai quanto sia bello respirare. Poi, una volta, non e' riuscito a dirmelo piu'". Aveva cinquant'anni e cinquant'anni non mi sembrano piu' cosi' tanti. 
Ho smesso perche' sono ipocondriaca, questo lo sapete gia', e non tutto il male vien per nuocere, no?
Comunque. In questo momento esatto vorrei una sigaretta.
Sapendo che mi sentirei terribilmente in colpa, mi darei dell'idiota perche' dopo tanto tempo e conoscendo l'angoscia di monitorarsi continuamente il respiro ci vorrebbe proprio una cretina.
Pero' vorrei una diana e un accendino, da non usare per accendere l'incenso (che, tra parentesi, mi sa che e' cancerogeno pure quello). 
E' arrivata la proposta scritta dall'altra azienda. Scritta, non piu' rassicurazioni e chiacchiere al telefono. Una serie di fogli di carta con stampate su le cifre, i ruoli, le condizioni eccetera eccetera. 
Quello che non c'e' scritto e' che fra me e quel lavoro ci sono cento chilometri di autostrada, un monolocale in affitto, lunghe notti da sola, niente bambini ancora per un po', i gatti che miagolano e le piante che appassiscono.
Oppure che c'e' una casa in campagna sulle colline, i gatti felici e ancora piu' liberi, sempre che si possa essere piu' liberi di cosi', bambini che nascono in cittadine dal welfare sicuro e glicini e rose piantati finalmente per terra. 
Qui cosa c'e'? C'e' la mia citta', il mio sindaco che non potra' contare sul fatto che non lo lasci solo, i miei vicini e le mie sere nel giardino a scrivere pepetroli. C'e' mio marito a casa troppo tardi la sera, la mia collega amica che non abbandono perche' se resto nella mia azienda mi allontano di un piano e di un corridoio. 
Sto facendo come la merla che costruisce il nido, qui dentro. Sto portando rametti e foglie secche, costruendo stabilita' e certezze provvisorie. Sto facendo il buco e mi ci sto nascondendo dentro. Ma sto anche scoprendo parti di me dimenticate da anni, sto scrivendo, cazzo, scrivendo quasi tutti i giorni di pensieri miei. Sto allevando esseri viventi che crescono in gran quantita' (nonostante il cruccio della salvia che deperisce senza un perche', rinnovo l'appello a chiunque abbia avuto nella vita una salvia che si suicida lentamente senza apparente motivo, ditemi cosa posso fare per motivarla a stare al mondo). 
Non sto mettendo un romanzo nel cassetto, sto mettendo la mia vita in rete. 
Sto amando persone, animali e vegetali a cui regalo presenza e non distanza, sto facendo un cuccia per i gattini che non so ancora se verranno. Sto lasciando un'utopia di cambiamento teorico del mondo per un esempio concreto di come si puo' vivere oggi cercando la pace con il prossimo, che per sua essenza e' vicino e, a volte, nemmeno troppo simpatico.
Cambiare lavoro, cambiare azienda non mi sembra un cambiamento vero. Come passare dal Vietnam all'Iraq. Sempre un mercenario resti. Non si scardinano le logiche, non si risolve il problema.
Stamattina ascoltavo la radio. Tutte le mattine in macchina sento l'inizio del programma di un giornalista che si chiama Giannino, forse ce l'avete presente. Ecco, Giannino e' una delle persone che riescono in modo piu' efficace a delineare la mia identita' politico - ideologica di statalista socialista pubblicista. Il fatto e' che si tratta di una persona molto intelligente, molto colta e preparata. Che dice una serie di cose. Con cui io non sono mai d'accordo. 
Il fatto di sentire un pensiero articolato, complesso e colto di tipo liberista antistatalista e privatistico mi convince del fatto che credo quel che credo non perche' dall'altra parte non c'e' pensiero, perche' ho dei preconcetti dovuti allo schifo che mi fanno gli attuali governanti di questo Paese, ma perche' esistono effettivamente posizioni diverse su temi importanti e io so quale abbracciare. 
Era una digressione.
Stamattina Giannino non aveva ancora cominciato il suo programma e alla radio davano un bollettino della borsa. Il giornalista, con somma indifferenza (o soltanto il consueto sonno, che capisco bene), ha detto che il titolo x aveva avuto un aumento di valore del sette per cento, che i mercati avevano premiato il piano industriali di efficienza e ristrutturazione, che includeva mille esuberi.
Il fatto che a mille persone per strada corrispondessero sette punti per gli azionisti, scusate l'indignazione banale, mi ha fatto venire voglia di girare la macchina e tornare a casa nel letto.
Non ci voglio lavorare piu', per favorire, o, dato il mio mestiere, giustificare, logiche idiote di questo tipo. Passare da un padrone all'altro non mi fara' convincere che e' giusto cosi', che all'improvviso ci credo di nuovo, nello sviluppo sociale affiancato a quello economico. 
Mio marito la pensa in modo diverso. Lui mi spinge molto, su questo cambiamento. Dice che non bisogna smettere di combattere per l'uomo astratto, per il bene astratto. Che l'uomo quando diventa il vicino, il bene quando diventa il tuo, sono obiettivi troppo minimali per cui lottare a trent'anni, che quello puo' essere il come si vive, ma non il per cosa si vive.
Dice che bisogna continuare a fare i cani da guardia dentro alle organizzazioni, che occorre provarlo con l'esempio e la pratica quotidiana che si puo' perseguire un bene maggiore, senza ritirarsi in paradisi perduti costruiti giorno dopo giorno, con le proprie mani, in giardini di citta'. 
Dice che sono troppo brava per mollare ora. Che e' troppo presto. 
Che scegliere un lavoro piu' piccolo e semplice, almeno in apparenza, nella mia azienda per sperare di ridurre le ore e il coinvolgimento in ufficio e' un errore di cui posso pentirmi amaramente.
Mi ricorda quanto abbiamo odiato gli autori televisivi che leggevano Guerra e Pace in privato e propinavano Non e' la Rai agli spettatori, convinti che si potesse essere intellettuali in casa e populisti al lavoro. Sicuri di essere piu' intelligenti della massa, che in fondo quello era "solo lavoro" e che la loro identita' vera stesse nelle chiacchiere in salotto con pochi eletti.
Mi dice che la politica, quella vera, si fa stando in mezzo, non a lato.
Mi rammenta che sporcarsi le mani ha un significato piu' ampio che raccogliere terra sotto le unghie mentre si estirpa un'erbaccia dal peperone. 
Non lo so se ho ancora la forza di dirgli che ha ragione.
Penso che tutto il pianeta sia al mio stesso bivio. Il confine fra defezione e cambio di paradigma e' molto labile, non sapro' mai se in questo momento mi manca coraggio o ne ho troppo per questo tempo bastardo, di scarse ideologie collettive a guidarmi il cammino. C'e' la volpe e c'e' l'uva. Io l'uva posso raggiungerla, ma non so se la voglio mangiare. 
Non so nemmeno se sia uva o se sia un'illusione di evasione. Puo' darsi che restare nella mia azienda a fare la crumira del sistema che a casa ha un bellissimo giardino su cui ritirarsi a scrivere mi renda effettivamente una persona peggiore. Ma anche fare l'utile idiota che continua a lasciare la vita su una causa gigantesca di nome sostenibilita', che finisce per essere un alibi per fare soldi, mi sembra altrettanto deprimente. 
Sotto tutto questo, ma e' un discorso troppo ampio per affrontarlo adesso, c'e' anche il dubbio atroce e la rabbia sorda di sapere che essere donna e avere un orologio biologico che ticchetta e' una variabile non indifferente di questa lotta fra pubblico e privato, fra conservazione e innovazione.
Il dubbio di non essere lucida mi da' alla testa. Come il fumo di quella sigaretta che non posso piu' accendere, ma che continua a farmi anelli davanti agli occhi, impedendomi di vedere chiaro e di scegliere, con serenita', quale giardino vale la pena di coltivare.

2 commenti:

  1. ciao buonasera

    ho scoperto il tuo bel blog che con piacere mi sono soffermata a leggere.

    a presto
    simonetta

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  2. @grazie, Simonetta! Aspetta che ti leggo anch'io.
    A presto!

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