E’ il 16 maggio,
è quasi l’una e sono appena arrivata in ufficio nella città bassotto per
l’ultima settimana del mio esilio. “La guerra è finita, almeno per me” mi
risuona nelle orecchie, poi penso che è la stessa strofa che cantavo un anno fa
lasciando il vecchio lavoro, la vecchia vita, la mia città per venire qui.
Penso a quanto è stata breve e inutile questa eterna e utilissima esperienza,
quanto poco mi lasci nello stomaco mentre allora andarsene era stato dolore e
liberazione e fatica. Quasi un parto. Benedico ancora una volta la bambina che
mi si rigira in pancia per avermi salvata, per avermi liberata come quasi tutti
i figli penso che facciano prima ancora di nascere.
Sto per andare a
pranzo con le ragazze, le uniche sinceramente contente di vedermi perché
estranee come me, prese dallo stesso senso di precarietà e non appartenenza.
Nel frattempo ho aperto il pc, ho appoggiato i piedi sullo sgabello che ha
accompagnato la mia pancia che cresceva quest’inverno. Ho a fianco borse e borsine
varie, sembra che torni da un lungo viaggio e debba ancora mettere a posto,
invece sto già ripartendo.
Suona il
telefono. E’ lei, S., la mia amica e la mia capa che non smetterà mai di essere
entrambe le cose perché c’è in fondo una specie di giustizia divina in questo
senso di appartenenza. Ci sentiamo non troppo, ma abbastanza spesso, ogni volta
con l’impressione che dopo un secondo di conversazione sia come essersi parlate
dieci minuti e non dieci giorni prima. E’ così fra noi, è sempre stata così, le
parole vengono da sole e non vogliono interrompersi. Però questo è un mercoledì
ed è l’una del pomeriggio, un giorno e un orario insolito per una telefonata. Lei
ha sempre da fare, io anche, ci sentiamo a orari strani, in cui di solito si è
in taxi, o si viaggia. Oppure di sabato mentre i mariti collassano sul divano. In
più mi sembra sia in Congo questa settimana.
Le rispondo con
la voce allegra. Come va, ma non sei in Africa? Sì, sono qui. E. è morto un
quarto d’ora fa.
In quel grigio
opaco di umidità che accomuna Parma a Pointe Noire, lei ha di fianco F., l’altra
nostra amica stretta. Probabilmente F. le ricorda che sono incinta. Lei fa “ah sì”
fuori dalla cornetta, mi chiede se sono seduta. Mi viene da sorridere. E’ così
da lei accorgersi di avere tirato una bomba con un minuto di differita rispetto
al reale. Non mi vergogno nemmeno di sorridere, tanto non è vero. Non può
essere vera questa telefonata e non lo sarà per i prossimi due o tre giorni,
nonostante lo dica e lo ripeta al telefono alle persone che devono saperlo,
malgrado venga chiamata perché lo sanno tutti che gli voglio bene. La consapevolezza
arriva pian piano.
Sono le sue fotografie che cominciano a girare via mail da
uno all’altro. E. in vacanza, E. al mio matrimonio, E. per lavoro in Basilicata
in una mattina gelata, E. con la faccia da matto che mangia un tramezzino in
una stupida foto del cellulare, E. istituzionale ma con la giacca di velluto e
le mani in tasca.
E. è morto come
cade una foglia fuori dall’autunno. Colpita da un gatto che salta, per un gesto
maldestro del giardiniere. Per sbaglio. E’ morto a Roma che non gli piaceva
accanto a una persona che gli piaceva molto. E’ morto al lavoro anche se la sua
vita non ha avuto il lavoro al centro dei suoi pensieri. E’ morto in un modo
indiscutibile e netto che contrasta con la sua ricerca della mezza misura e con
la lotta interiore che ha sempre condotto con il se stesso estremo e rabbioso
che a volte emergeva quando si superava il suo limite. Soprattutto è morto con
troppi progetti in testa e con vite parallele ancora da esplorare, dopo aver
ricevuto alcune soddisfazioni, ma non tutte quelle che si aspettava e che, con
il senno dell’allora e anche con quello del poi, si era meritato.
Una non gliel’ho
data io e, appena mi sono resa conto che quello che mi aveva detto S. era vero,
me ne sono dispiaciuta.
Quando me ne sono
andata dall’ufficio, quell’ultimo giorno di meno di un lungo anno fa, mi ha
dovuto lasciare il suo granello di sabbia perché ci riflettessi come fa un’ostrica
nel costruire la perla. Lo faceva spesso, di volerti salutare con una frase ad
effetto e con lo sguardo storto e malizioso del bel ragazzo che è sicuramente
stato. Non sempre gli riusciva il gioco, ma quel giorno avevo il cuore tenero e
quindi il messaggio entrò e restò lì. Mi chiese di scrivergli se gli avevo
lasciato qualcosa, di fargli sapere se c’era un suo insegnamento che mi portavo
con me. Io risposi di sì, che gli avrei scritto. “L’avevo chiesto anche a un’altra
persona – mi disse – non l’ho mai più sentita”. Non ho dimenticato né le parole
né la malinconia del tono, ci pensavo spesso.
Io sono come
quell’altra persona, non ho mantenuto la promessa. Non posso nemmeno dire che
non ho fatto in tempo, perché se lui fosse vivo probabilmente sarei ancora qui
a procrastinare, è solo la sua morte che rende ineluttabile quanto è successo e
inutile chiedersi se un giorno avrei mai aperto la mail e digitato il suo
indirizzo.
Posso giustificarmi
dicendo che è stato un anno difficile, che ho cambiato città, clima, azienda,
che ho scoperto la solitudine e la non appartenenza e che nel frattempo ho
fabbricato una bambina, però un’ora l’ho sicuramente avuta per scrivere a E., e
non l’ho fatto. Ho guardato moltissimi stupidi programmi televisi, ho letto
inutili post su internet, ho parlato al telefono con molte persone inutili e
persino con lui, ma non gli ho scritto. E’ l’illusione che ci sia sempre tempo,
che si possa sempre recuperare, è l’egoismo di essere chiusi nella propria vita
e non riuscire a mettere in fila le cose che contano. Sono certa di averlo deluso
e non posso farci niente, ormai.
Il paradosso è
che con il cambio di prospettiva che la morte impone ho finalmente capito cosa
mi chiedeva e ora potrei rispondere, perché è finito l’imbarazzo di dovergli
dire la verità. E. – gli direi - quando mi hai chiesto di scriverti io ho
provato a elencare mentalmente i tuoi insegnamenti. Solo che allora li ho
trovati tutti sbagliati e anche ora faccio fatica a tenermeli addosso.
Mi diceva sempre
di mediare, di trovare un equilibrio fra vita lavorativa e vita privata. Lo diceva
a una persona che non è mai riuscita nemmeno a concepire che ci potessero
essere due vite diverse, spazi differenziati per ogni sé. Mi diceva di non
correre, perché siamo tutti impegnati in una maratona e non in una cento metri,
mentre io impazzivo per un certo suo rimandare e non risolvere. Mi diceva di
badare alle relazioni e non solo ai risultati e io questo non lo so fare, anche
se la vita è un gioco ripetuto e quindi non ci si può sempre permettere di
buttare in aria le carte. Mi diceva di tenere conto della politica in azienda,
quando per me la dietrologia è sempre contata molto poco e non ho mai avuto
paura di pestare i piedi a nessuno. Mi mostrava in riunione l’arte di
narcotizzare il prossimo perché non arrivassero richieste almeno per un po’,
non importava se prima o poi ogni cosa non risolta sarebbe riaffiorata come un
cadavere nel fiume. Cercava continuamente di capire cosa potevamo lasciare
andare senza danno, cosa era un male necessario facessimo noi, mentre io
provavo entusiasmo sincero a ogni nuovo progetto che ci arrivava in casa.
Pensavo che E.
volesse sentirsi riconoscere da me questi insegnamenti, che volesse che io gli
dicessi che aveva ragione e che avrei recepito i suoi consigli. Non potevo
scrivergli che l’avevo fatto né che ci avrei lavorato in futuro, perché, allora
come oggi, trovo che tutto questo non faccia parte di me e dell’epoca in cui
vivo. Mi sembra che sia finita l’era geologica per questo stare al mondo cercando
di non bruciarsi, che di uomini d’azienda come lui non ce ne possano essere
più. Mi diceva sempre che bisogna sapere se sì è nati con le infradito o con
gli stivali di gomma, perché se si hanno gli stivali si può pestare qualunque
merda, con le ciabatte occorre stare attenti. Forse oggi non ci sono più
stivali di gomma per nessuno, oppure in fondo si può pestare qualche merda e
restare puliti lo stesso. La vita cauta di chi guarda dove mette i piedi non si
addice a me e probabilmente non va più bene per il mondo. Non penso che sia un
elemento necessariamente positivo, sia chiaro, sono solo convinta che sia così.
E. rappresenta un
modo di pensare, di vivere, di essere lavoratore che va estinguendosi piano
piano, almeno nelle aziende che vedo. Il suo modo di essere non completamente
fatto di tecnica, ma non solo costruito sulla parola, pesante e leggero al
contempo, ha un ché di anacronistico e disfunzionale nella rigidità degli
organigrammi. Il suo essere fluido e versatile e spendibile in posti e con
gente diversa non riesce più a essere un valore a sé. La sua dedizione
consapevole del diritto, non illimitata per quanto non limitata, non può
controbilanciare la schiera di limoncini pronti da spremere che il mercato del
lavoro offre ogni giorno. La logica della carriera lineare e di lungo periodo
che ha improntato la sua vita è stata velocemente dimenticata e sembra oggi una
leggenda, un ricordo di un’epoca andata.
Per questo
sarebbe stato bello scrivergli che avevo imparato da lui un modo di stare al
mondo e di lavorare. Non lo potevo fare e forse per questo non l’ho fatto, per
non dovergli dire tutto quello che oggi mi viene così naturale scrivere. Mi
dispiace, E., sarò sempre estrema, lavorerò tantissimo e con tutta l’anima o
prenderò due anni di nulla per crescere mia figlia, non cercherò un compromesso
virtuoso fra interesse e passione, non riuscirò mai a non farmi calpestare nei
miei diritti né a rivendicare un percorso di crescita che sia fatto per durare
giurando fedeltà a un’azienda. Non riuscirò a interessarmi davvero alla
politica locale, né a vedere segni premonitori in una mail o nel sorriso di un
direttore.
La cosa che
adesso mi fa salire un po’ le lacrime agli occhi è aver capito solo ora che quella che voleva da me non era la rassicurazione di un mentore nei
confronti di una discepola. Dentro di sé sapeva che non avrei mai accettato
insegnamenti professionali da un maschio più grande di me. Sapeva anche che non
avrei mai davvero ascoltato il parere di nessuno che non fosse S.
Ha patito i miei
sfoghi contro di lei e probabilmente quelli di lei contro di me durante quella
crisi profonda che ha poi segnato il mio allontanarmi, forse sogghignando fra i
baffi da gatto di quel suo Romeo a cui è sempre assomigliato, con la
consapevolezza che potevamo dire quello che volevamo, ma c’era comunque un
qualcosa per cui ogni sua parola sarebbe stata inutile. Non ha mai pensato
davvero che io potessi trasformarmi in una maratoneta riflessiva, non mi ha mai
voluta diversa da com’ero.
Allora cos’ho
imparato da te, amico che se n’è andato in modo incongruo? Cosa mi hai dato?
Oggi mi viene in
mente che mi hai regalato delle talee di gelso fuori stagione in cambio di un
cucciolo di glicine, per l’orgoglio del tuo giardino di condominio che si
specchia così bene con il mio. Non sono sopravvissute, ma mi sarebbe piaciuto
averle adesso. Abbiamo discusso per mesi di come portare nel tuo cortile una
magnolia che la quarta corsia dell’autostrada voleva estirpare dal giardino di
mia madre in campagna e ci siamo scritti a lungo per uno dei tuoi protetti, un
migrante ancora senza permesso di soggiorno che volevi trovasse un lavoro per
la raccolta della frutta. Mi hai insegnato il prendersi a cuore gli altri e le
cose pubbliche.
Abbiamo riso di aerei
in ritardo e della tua conoscenza pluriennale delle hostess della tratta Roma –
Milano. Ti ho immaginato al cinema da solo nelle serate di trasferta, o nelle
librerie con cucina ad ascoltare letture di poetesse sconosciute. Mi hai
insegnato che si può essere socievoli con la leggerezza di chi di fondo sta
bene anche da solo e che saper stare al mondo, con un’urbanità spontanea perché
costruita negli anni, è un valore e una chiave che apre molte porte.
La risposta più
fonda, però, sta nel tuo funerale.
E’ un sabato di
maggio che sembra novembre sul sagrato del Duomo di Lodi. Quella notte la
Pianura Padana sarà colpita dal terremoto e il clima stantio della tragedia è
già nell’aria. Piove mentre arriva l’auto con la tua cassa, piove mentre se ne
va. Nel mezzo solo cielo basso e nuvole e il respiro mozzato di un pancione
ormai grande e ingombrante. La piazza è piena di gente silenziosa. I tuoi figli
e tua moglie sono belli e luminosi in mezzo a tutte quelle facce grigie e io capisco
il sorriso che ti ho sempre visto spuntare al telefono quando parlavi con loro,
andando a mensa o tornando in taxi da qualche parte. Non sanno, non credono,
non possono sapere come sarà domani.
Noi – e in quel
noi sta tutto il senso del mondo – stiamo tutti vicini come pulcini bagnati. Abbiamo
bisogno di contatto fisico, ci cerchiamo le mani, mentre l’onda dell’emozione è
così forte che rende dieci centimetri più bassi. A mio marito, così come a
chiunque ci sappia guardare, l’evidenza di quel noi salta subito agli occhi. In
un mondo che si disgrega ci sono persone che si appartengono, perché hanno una
storia in comune da raccontarsi, fatta di tappe su cui ognuna di loro può fare
la staffetta.
E’ un caffè prima
di entrare, in cui quattro ragazze ormai cresciute provano a parlare di smalti
per distrarsi e invece vedono l’una nell’altra com’erano a vent’anni, quando
per la prima volta le hai chiamate colleghe e loro non c’erano abituate. E
pensano che tutto quello che ha senso è ritrovarsi e lavorare di nuovo insieme,
anche se non sanno per far cosa.
Va molto al di là
del vissuto lavorativo, è aneddoti, storie, battute. E’ il Pianeta Papalla su
cui stanno tutti quanti tranne noi, è l’essersi presi in giro mille volte sull’ipocondria
senza sapere quanto sarebbe stata inutile, sulle storielle del militare, sulle
avventure di un collega sfortunato, sulla malizia di una battuta, sulla fatica
di una trasferta, su un ragazzotto che arriva a far parte del gruppo e scatta
subito la competizione come fra i galli nel pollaio.
E’ la dolcezza di
stare attenti a non citare mai l’età, che è tasto sensibile, è la delicatezza
dei brufoli o della ciccia su cui non si è mai soffermato lo sguardo. E’ il
caffè della mattina e l’ultimo ciao veloce della sera, la chiacchiera troncata
a metà perché sono già le nove ed è ora di andare a casa, non c’è tempo per
parlare ancora.
E., da te ho
imparato che il modo migliore per rubare una ruspa è scavare una buca, poi
farcela cadere dentro e ricoprirla, per tirarla fuori di nuovo mesi dopo,
quando nessuno la cerca più. Perché altrimenti basta un elicottero e ti beccano
subito. Solo che con te, con noi, ha funzionato al contrario. Appena ti sei
nascosto è diventato evidente cosa manca. Quando ci siamo alzati in volo e
abbiamo guardato le cose da un’altra prospettiva è stato immediatamente chiaro
a tutti cosa non c’era e perché quello che non c’era era così importante. Abbiamo
capito che non c’è tempo, che devi costruire finché puoi e finché c’è la ruspa,
perché poi all’improvviso manca e tutto rimane come sospeso.
Forse, dopo
questa sfilza di prove e di errori, troveremo la nostra strada. Grazie anche a
te.
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