domenica 8 luglio 2012

Cosa non fare nel vostro orto in vaso

Premetto che questa non e' l'estate dell'orto.
Per via della matrioskina in pancia da 9 mesi ormai abbondanti non posso toccare la terra se non con i guanti, cosa aberrante, ne converrete.
Per tutti i lavori semipesanti - spostare vasi e cassette, rabboccare le innaffiature con i miei 20 kg di annaffiatoio eccetera devo affidarmi al riluttante consorte, ovviamente dare pesticidi non se ne parla e nemmeno andar per campi a raccogliere ortiche.
Insomma, ho trascurato orribilmente l'orto, sperando che guardarlo con amore, togliere le erbacce e mettere bacchette di sostegno bastasse.
Devo anche premettere che, d'altra parte, quest'anno avevo fatto le cose con ambizione. Solo coltivazione da seme, niente piantine comperate fatte e grandi cassette (100 cm per 40 circa) dove ospitare le piante.
Infine, a mia parziale giustificazione, la stagione e' stata odiosa: pioggia e solo pioggia fino a giugno, poi le ondate di caldo umido a cui quest'anno hanno persino dato nomi mitologici, che hanno abbacchiato tremendamente me, la mia pancia e le mie piante, che sono passate dai funghi agli afidi senza soluzione di continuità.
Fatto questo quadro spero oggettivo, passo ai risultati.
Pomodori: ho usato i semi delle mie piante dell'anno scorso. Posso assicurare e provare con testimonianze fotografiche dell'epoca che si trattava di cuori di bue. Ora: le piante sono cresciute, anche se lentamente e con energie imparagonabili rispetto allo scorso anno, ma i frutti sono pomodori perini, tra l'altro verdi e amari come il veleno. Non so se mai diverranno rossi e mangiabili. Mio suocero aveva abbondantemente criticato la mia scelta di tenere i semi dello scorso anno, boforchiando qualcosa a proposito del fatto che le piante sono tutte ibridate e che quindi non avrei avuto frutti. Mi rifiuto di dargli ragione, ma l'enigma dei pomodori che cambiano varietà non e' risolto.
Peperoni: gli unici che stanno venendo come i deve. Piante molto più piccole e corte dello scorso anno, ma ognuna ha un bel peperone in crescita, per ora verde ma che promette colore. Pochi afidi e nessun fungo, si sono dimostrati belli e resistenti, nonché meno esigenti in fatto di terra e acqua del loro progenitore, il peperone unico dello scorso anno.
Questi non saranno ibridati? Avro' conservato meglio i semi? Mah!
Melanzane: primo esperimento, l'anno scorso non le avevo. Mi avevano detto che erano belle e facili, per il momento non posso confermare. La germinazione dei semi e' stata eterna e difficoltosa, ci hanno messo più di due mesi a uscire quattro foglioline stitiche. Ora sembrano lattughe: enormi foglie verde scuro, ma non un fiore e non un frutto, nonostante le mie volonterose apine che svolazzano intorno alle rose che contornano l'orto. Magari sono solo lente come il peperone lo scorso anno e arriveranno, attendiamo.
Infine, la delusione più grande: le mie zucchine fanno schifo. Sono germinate e fiorite a tempo di record, ma non riescono a portare a termine uno zucchino. Hanno preso una malattia (credo un acaro) che sbianca e fa seccare le foglie, continuano a fare questi meravigliosi fiori gialli ma solo minuscoli fruttini, che muoiono prima di maturare, mentre le piante stentano. Una tristezza senza fine e a cui non trovo soluzione.
Ora passiamo agli errori certi, che non ripeterò:
1. Poca terra nelle cassette. Lo strato di terra che ho messo nelle cassette e' troppo sottile, saranno 40 cm massimo. All'inizio questo ha aiutato, perché sotto le tempeste e i venti di maggio e giugno le giovani piantine sono state protette e sono sopravvissute, ora pero' penso che avere poco spazio per le radici non le aiuti a difendersi dalle malattie.
2. Troppe piante: venendo da seme mi sembravano così fragili che non ho pensato potessero sopravvivere tutte. Ora invece sono troppo fitte, dovrei toglier e qualcuna ma non ho il coraggio, quindi le lascio stentare tutte.
3. Troppo biologico per la stagione. Le rose accanto a prendersi gli afidi e la terra buona non bastano a fronte dei disastri meteo dell'anno. Di fatto il successo dell'estate 2011 era stato in parte fortuna della principiante, in parte una condizione termica meravigliosa, che quest'anno non c'e' stata. In questo caso un po' di chimica aiuterebbe, ma io non me la sento, quindi mi tengo il mio orto stentato.
4. Cura. L'orto, più ancora di tutto il resto, ha bisogno di mani addosso, continuamente. Vuole il contatto fisico, senza guanti e senza toxoplasmosi. Non deve sentire diffidenza. Se i frutti (le more, il ribes, l'uva, pesche e albicocche del cortile) hanno quasi beneficiato del mio lasciarli in pace, del non avermi sempre li' a rabboccare, tagliare e aggiustare, il mio povero orto sente che la priorità e' Leda in pancia e patisce...cercherò di rifarmi, se lei me lo consentirà, fra qualche giorno, quando finalmente questo pomodoro che ho dentro la pancia sarà maturo.
Vi racconterò come procedono tutti gli orti della mia vita.

giovedì 7 giugno 2012

In morte di E.


E’ il 16 maggio, è quasi l’una e sono appena arrivata in ufficio nella città bassotto per l’ultima settimana del mio esilio. “La guerra è finita, almeno per me” mi risuona nelle orecchie, poi penso che è la stessa strofa che cantavo un anno fa lasciando il vecchio lavoro, la vecchia vita, la mia città per venire qui. Penso a quanto è stata breve e inutile questa eterna e utilissima esperienza, quanto poco mi lasci nello stomaco mentre allora andarsene era stato dolore e liberazione e fatica. Quasi un parto. Benedico ancora una volta la bambina che mi si rigira in pancia per avermi salvata, per avermi liberata come quasi tutti i figli penso che facciano prima ancora di nascere.
Sto per andare a pranzo con le ragazze, le uniche sinceramente contente di vedermi perché estranee come me, prese dallo stesso senso di precarietà e non appartenenza. Nel frattempo ho aperto il pc, ho appoggiato i piedi sullo sgabello che ha accompagnato la mia pancia che cresceva quest’inverno. Ho a fianco borse e borsine varie, sembra che torni da un lungo viaggio e debba ancora mettere a posto, invece sto già ripartendo.

Suona il telefono. E’ lei, S., la mia amica e la mia capa che non smetterà mai di essere entrambe le cose perché c’è in fondo una specie di giustizia divina in questo senso di appartenenza. Ci sentiamo non troppo, ma abbastanza spesso, ogni volta con l’impressione che dopo un secondo di conversazione sia come essersi parlate dieci minuti e non dieci giorni prima. E’ così fra noi, è sempre stata così, le parole vengono da sole e non vogliono interrompersi. Però questo è un mercoledì ed è l’una del pomeriggio, un giorno e un orario insolito per una telefonata. Lei ha sempre da fare, io anche, ci sentiamo a orari strani, in cui di solito si è in taxi, o si viaggia. Oppure di sabato mentre i mariti collassano sul divano. In più mi sembra sia in Congo questa settimana.

Le rispondo con la voce allegra. Come va, ma non sei in Africa? Sì, sono qui. E. è morto un quarto d’ora fa. 

In quel grigio opaco di umidità che accomuna Parma a Pointe Noire, lei ha di fianco F., l’altra nostra amica stretta. Probabilmente F. le ricorda che sono incinta. Lei fa “ah sì” fuori dalla cornetta, mi chiede se sono seduta. Mi viene da sorridere. E’ così da lei accorgersi di avere tirato una bomba con un minuto di differita rispetto al reale. Non mi vergogno nemmeno di sorridere, tanto non è vero. Non può essere vera questa telefonata e non lo sarà per i prossimi due o tre giorni, nonostante lo dica e lo ripeta al telefono alle persone che devono saperlo, malgrado venga chiamata perché lo sanno tutti che gli voglio bene. La consapevolezza arriva pian piano. 
Sono le sue fotografie che cominciano a girare via mail da uno all’altro. E. in vacanza, E. al mio matrimonio, E. per lavoro in Basilicata in una mattina gelata, E. con la faccia da matto che mangia un tramezzino in una stupida foto del cellulare, E. istituzionale ma con la giacca di velluto e le mani in tasca.

E. è morto come cade una foglia fuori dall’autunno. Colpita da un gatto che salta, per un gesto maldestro del giardiniere. Per sbaglio. E’ morto a Roma che non gli piaceva accanto a una persona che gli piaceva molto. E’ morto al lavoro anche se la sua vita non ha avuto il lavoro al centro dei suoi pensieri. E’ morto in un modo indiscutibile e netto che contrasta con la sua ricerca della mezza misura e con la lotta interiore che ha sempre condotto con il se stesso estremo e rabbioso che a volte emergeva quando si superava il suo limite. Soprattutto è morto con troppi progetti in testa e con vite parallele ancora da esplorare, dopo aver ricevuto alcune soddisfazioni, ma non tutte quelle che si aspettava e che, con il senno dell’allora e anche con quello del poi, si era meritato. 

Una non gliel’ho data io e, appena mi sono resa conto che quello che mi aveva detto S. era vero, me ne sono dispiaciuta.

Quando me ne sono andata dall’ufficio, quell’ultimo giorno di meno di un lungo anno fa, mi ha dovuto lasciare il suo granello di sabbia perché ci riflettessi come fa un’ostrica nel costruire la perla. Lo faceva spesso, di volerti salutare con una frase ad effetto e con lo sguardo storto e malizioso del bel ragazzo che è sicuramente stato. Non sempre gli riusciva il gioco, ma quel giorno avevo il cuore tenero e quindi il messaggio entrò e restò lì. Mi chiese di scrivergli se gli avevo lasciato qualcosa, di fargli sapere se c’era un suo insegnamento che mi portavo con me. Io risposi di sì, che gli avrei scritto. “L’avevo chiesto anche a un’altra persona – mi disse – non l’ho mai più sentita”. Non ho dimenticato né le parole né la malinconia del tono, ci pensavo spesso.
Io sono come quell’altra persona, non ho mantenuto la promessa. Non posso nemmeno dire che non ho fatto in tempo, perché se lui fosse vivo probabilmente sarei ancora qui a procrastinare, è solo la sua morte che rende ineluttabile quanto è successo e inutile chiedersi se un giorno avrei mai aperto la mail e digitato il suo indirizzo.
Posso giustificarmi dicendo che è stato un anno difficile, che ho cambiato città, clima, azienda, che ho scoperto la solitudine e la non appartenenza e che nel frattempo ho fabbricato una bambina, però un’ora l’ho sicuramente avuta per scrivere a E., e non l’ho fatto. Ho guardato moltissimi stupidi programmi televisi, ho letto inutili post su internet, ho parlato al telefono con molte persone inutili e persino con lui, ma non gli ho scritto. E’ l’illusione che ci sia sempre tempo, che si possa sempre recuperare, è l’egoismo di essere chiusi nella propria vita e non riuscire a mettere in fila le cose che contano. Sono certa di averlo deluso e non posso farci niente, ormai. 

Il paradosso è che con il cambio di prospettiva che la morte impone ho finalmente capito cosa mi chiedeva e ora potrei rispondere, perché è finito l’imbarazzo di dovergli dire la verità. E. – gli direi - quando mi hai chiesto di scriverti io ho provato a elencare mentalmente i tuoi insegnamenti. Solo che allora li ho trovati tutti sbagliati e anche ora faccio fatica a tenermeli addosso.
Mi diceva sempre di mediare, di trovare un equilibrio fra vita lavorativa e vita privata. Lo diceva a una persona che non è mai riuscita nemmeno a concepire che ci potessero essere due vite diverse, spazi differenziati per ogni sé. Mi diceva di non correre, perché siamo tutti impegnati in una maratona e non in una cento metri, mentre io impazzivo per un certo suo rimandare e non risolvere. Mi diceva di badare alle relazioni e non solo ai risultati e io questo non lo so fare, anche se la vita è un gioco ripetuto e quindi non ci si può sempre permettere di buttare in aria le carte. Mi diceva di tenere conto della politica in azienda, quando per me la dietrologia è sempre contata molto poco e non ho mai avuto paura di pestare i piedi a nessuno. Mi mostrava in riunione l’arte di narcotizzare il prossimo perché non arrivassero richieste almeno per un po’, non importava se prima o poi ogni cosa non risolta sarebbe riaffiorata come un cadavere nel fiume. Cercava continuamente di capire cosa potevamo lasciare andare senza danno, cosa era un male necessario facessimo noi, mentre io provavo entusiasmo sincero a ogni nuovo progetto che ci arrivava in casa.
Pensavo che E. volesse sentirsi riconoscere da me questi insegnamenti, che volesse che io gli dicessi che aveva ragione e che avrei recepito i suoi consigli. Non potevo scrivergli che l’avevo fatto né che ci avrei lavorato in futuro, perché, allora come oggi, trovo che tutto questo non faccia parte di me e dell’epoca in cui vivo. Mi sembra che sia finita l’era geologica per questo stare al mondo cercando di non bruciarsi, che di uomini d’azienda come lui non ce ne possano essere più. Mi diceva sempre che bisogna sapere se sì è nati con le infradito o con gli stivali di gomma, perché se si hanno gli stivali si può pestare qualunque merda, con le ciabatte occorre stare attenti. Forse oggi non ci sono più stivali di gomma per nessuno, oppure in fondo si può pestare qualche merda e restare puliti lo stesso. La vita cauta di chi guarda dove mette i piedi non si addice a me e probabilmente non va più bene per il mondo. Non penso che sia un elemento necessariamente positivo, sia chiaro, sono solo convinta che sia così.
E. rappresenta un modo di pensare, di vivere, di essere lavoratore che va estinguendosi piano piano, almeno nelle aziende che vedo. Il suo modo di essere non completamente fatto di tecnica, ma non solo costruito sulla parola, pesante e leggero al contempo, ha un ché di anacronistico e disfunzionale nella rigidità degli organigrammi. Il suo essere fluido e versatile e spendibile in posti e con gente diversa non riesce più a essere un valore a sé. La sua dedizione consapevole del diritto, non illimitata per quanto non limitata, non può controbilanciare la schiera di limoncini pronti da spremere che il mercato del lavoro offre ogni giorno. La logica della carriera lineare e di lungo periodo che ha improntato la sua vita è stata velocemente dimenticata e sembra oggi una leggenda, un ricordo di un’epoca andata.
Per questo sarebbe stato bello scrivergli che avevo imparato da lui un modo di stare al mondo e di lavorare. Non lo potevo fare e forse per questo non l’ho fatto, per non dovergli dire tutto quello che oggi mi viene così naturale scrivere. Mi dispiace, E., sarò sempre estrema, lavorerò tantissimo e con tutta l’anima o prenderò due anni di nulla per crescere mia figlia, non cercherò un compromesso virtuoso fra interesse e passione, non riuscirò mai a non farmi calpestare nei miei diritti né a rivendicare un percorso di crescita che sia fatto per durare giurando fedeltà a un’azienda. Non riuscirò a interessarmi davvero alla politica locale, né a vedere segni premonitori in una mail o nel sorriso di un direttore. 

La cosa che adesso mi fa salire un po’ le lacrime agli occhi è aver capito solo ora che quella che voleva da me non era la rassicurazione di un mentore nei confronti di una discepola. Dentro di sé sapeva che non avrei mai accettato insegnamenti professionali da un maschio più grande di me. Sapeva anche che non avrei mai davvero ascoltato il parere di nessuno che non fosse S.
Ha patito i miei sfoghi contro di lei e probabilmente quelli di lei contro di me durante quella crisi profonda che ha poi segnato il mio allontanarmi, forse sogghignando fra i baffi da gatto di quel suo Romeo a cui è sempre assomigliato, con la consapevolezza che potevamo dire quello che volevamo, ma c’era comunque un qualcosa per cui ogni sua parola sarebbe stata inutile. Non ha mai pensato davvero che io potessi trasformarmi in una maratoneta riflessiva, non mi ha mai voluta diversa da com’ero.

Allora cos’ho imparato da te, amico che se n’è andato in modo incongruo? Cosa mi hai dato?
Oggi mi viene in mente che mi hai regalato delle talee di gelso fuori stagione in cambio di un cucciolo di glicine, per l’orgoglio del tuo giardino di condominio che si specchia così bene con il mio. Non sono sopravvissute, ma mi sarebbe piaciuto averle adesso. Abbiamo discusso per mesi di come portare nel tuo cortile una magnolia che la quarta corsia dell’autostrada voleva estirpare dal giardino di mia madre in campagna e ci siamo scritti a lungo per uno dei tuoi protetti, un migrante ancora senza permesso di soggiorno che volevi trovasse un lavoro per la raccolta della frutta. Mi hai insegnato il prendersi a cuore gli altri e le cose pubbliche.
Abbiamo riso di aerei in ritardo e della tua conoscenza pluriennale delle hostess della tratta Roma – Milano. Ti ho immaginato al cinema da solo nelle serate di trasferta, o nelle librerie con cucina ad ascoltare letture di poetesse sconosciute. Mi hai insegnato che si può essere socievoli con la leggerezza di chi di fondo sta bene anche da solo e che saper stare al mondo, con un’urbanità spontanea perché costruita negli anni, è un valore e una chiave che apre molte porte. 

La risposta più fonda, però, sta nel tuo funerale.
E’ un sabato di maggio che sembra novembre sul sagrato del Duomo di Lodi. Quella notte la Pianura Padana sarà colpita dal terremoto e il clima stantio della tragedia è già nell’aria. Piove mentre arriva l’auto con la tua cassa, piove mentre se ne va. Nel mezzo solo cielo basso e nuvole e il respiro mozzato di un pancione ormai grande e ingombrante. La piazza è piena di gente silenziosa. I tuoi figli e tua moglie sono belli e luminosi in mezzo a tutte quelle facce grigie e io capisco il sorriso che ti ho sempre visto spuntare al telefono quando parlavi con loro, andando a mensa o tornando in taxi da qualche parte. Non sanno, non credono, non possono sapere come sarà domani.
Noi – e in quel noi sta tutto il senso del mondo – stiamo tutti vicini come pulcini bagnati. Abbiamo bisogno di contatto fisico, ci cerchiamo le mani, mentre l’onda dell’emozione è così forte che rende dieci centimetri più bassi. A mio marito, così come a chiunque ci sappia guardare, l’evidenza di quel noi salta subito agli occhi. In un mondo che si disgrega ci sono persone che si appartengono, perché hanno una storia in comune da raccontarsi, fatta di tappe su cui ognuna di loro può fare la staffetta.
E’ un caffè prima di entrare, in cui quattro ragazze ormai cresciute provano a parlare di smalti per distrarsi e invece vedono l’una nell’altra com’erano a vent’anni, quando per la prima volta le hai chiamate colleghe e loro non c’erano abituate. E pensano che tutto quello che ha senso è ritrovarsi e lavorare di nuovo insieme, anche se non sanno per far cosa.
Va molto al di là del vissuto lavorativo, è aneddoti, storie, battute. E’ il Pianeta Papalla su cui stanno tutti quanti tranne noi, è l’essersi presi in giro mille volte sull’ipocondria senza sapere quanto sarebbe stata inutile, sulle storielle del militare, sulle avventure di un collega sfortunato, sulla malizia di una battuta, sulla fatica di una trasferta, su un ragazzotto che arriva a far parte del gruppo e scatta subito la competizione come fra i galli nel pollaio.
E’ la dolcezza di stare attenti a non citare mai l’età, che è tasto sensibile, è la delicatezza dei brufoli o della ciccia su cui non si è mai soffermato lo sguardo. E’ il caffè della mattina e l’ultimo ciao veloce della sera, la chiacchiera troncata a metà perché sono già le nove ed è ora di andare a casa, non c’è tempo per parlare ancora.

E., da te ho imparato che il modo migliore per rubare una ruspa è scavare una buca, poi farcela cadere dentro e ricoprirla, per tirarla fuori di nuovo mesi dopo, quando nessuno la cerca più. Perché altrimenti basta un elicottero e ti beccano subito. Solo che con te, con noi, ha funzionato al contrario. Appena ti sei nascosto è diventato evidente cosa manca. Quando ci siamo alzati in volo e abbiamo guardato le cose da un’altra prospettiva è stato immediatamente chiaro a tutti cosa non c’era e perché quello che non c’era era così importante. Abbiamo capito che non c’è tempo, che devi costruire finché puoi e finché c’è la ruspa, perché poi all’improvviso manca e tutto rimane come sospeso.
Forse, dopo questa sfilza di prove e di errori, troveremo la nostra strada. Grazie anche a te.

martedì 5 giugno 2012

Zucchina power

Lo strano clima freddo e piovoso di quest'anno ha ritardato tutto di un mese, ma il risultato finale, lo stupore per l'esplosione delle foglie e dei fiori di questa pianta speciale non cambia.
W la vita e W la zucchina!

venerdì 11 maggio 2012

Orticola 2012

Fra i pochi vantaggi dell'attesa c'e' il fatto di essere non dico libera, ma lavoratrice domestica, il venerdì.
Questo vuol dire che se vuoi, se sconfiggi l'arrabbiatura e l'inedia di aver passato la mattina in videoconferenza a parlare a un computer e c'e' il sole puoi andare a fare una tarda pausa pranzo fuori e che ti senti pure straordinariamente brava perché hai fatto una passeggiata, come se bastasse quella a ridurre l'effetto cetaceo della tua ombra riflessa sui muri.
Tutto questo se c'e' Orticola diventa straordinario. Io amo Orticola. Non mi importa se e' la Chelsea de no' artri. Se e' uno sfoggio di ridicoli cappellini da parte di improbabili signore prive di tracce di terra sotto le unghie. Se e' pop e snob allo stesso tempo. Amo che sia maggio, che le aiuole del parco siano nuove nuove e splendenti e che ovunque ci siano le piante più belle, quelle che credevi esistessero solo su Gardenia, quelle che hanno un nome proprio che evoca storie e avventure e invenzioni di uomini e donne che di mestiere curavano immensi giardini.
Quest'anno ho notato tre cose, che metto in ordine senza che sembri una recensione.
C'e' uno spaventoso declino di orto e aromatiche. Dopo due anni in cui se non avevi tre pomodori e una salvia allo stand non ti si filava nessuno, in questa edizione l'orto e' solo educativo, solo da bambini.
Non so se sia perché ormai il giardinaggio da cucina e' diventato una roba da Esselunga, troppo pop anche per i pop-snob oppure perché tutti si sono messi a tirare su l'orto da seme, come - arrancando - mi sono messa a fare io. Fatto sta che volevo una salvia per riprovare dopo il fallimento dello scorso anno e sono tornata indietro a mani vuote.
Seconda considerazione: un sacco di gente si e' messa a vendere piante molto strane. Robe che non hanno bisogno ne' di acqua ne' di terra e volteggiano con le radici aeree appese a fragili cestini, piante grasse che sembrano sassi, erbacee perenni che sembrano secche. C'e' pieno di gente intorno a questi banchi, ma non sembrano amanti dei fiori. E' come essere un appassionato di rettili che da' loro da mangiare topolini vivi. Niente a che vedere con l'amore per le bestie, solo una insana passione o una moda destinata a passare.
Infine, quasi a specchio delle due osservazioni sopra, un grande e meritato ritorno dei fiori normali, quelli di cui tutti sanno il nome, nelle varianti più belle e monotematiche.
Splendidi venditori di sole rose, di ortensie che sembrano dischi volanti, gerani e pelargoni, di peonie lunghe lunghe con un solo fiore.
Trovo che sia una cosa bellissima, che si accompagna a un gusto delle piante in primis perché sono parte di noi, dei ricordi, dell'infanzia, di un immaginario condiviso. Ognuno di noi ha una nonna che coltivava rose, pochi un avo dedito alle sterpaglie o alle piante carnivore, per fortuna.
E' molto meglio descrivere un fiore e sapere che chi hai di fronte riesce a visualizzarlo, ne conosce l'odore e la consistenza delle foglie piuttosto che riempirsi la bocca di parole difficili a cui il prossimo non associa nulla.
Forse e' per questo che ho comprato una rosa, una rosa famosa con un nome proprio. La nuova inquilina del giardino e' una Sans Souci, che avrà il compito di tenere insieme le fioriture gialle dell'arco ereditato con tutti i toni del rosa che circondano l'orto.
E' in boccio, senza neanche un fiore aperto e purtroppo tornando in taxi uno l'ho perduto, ma in pochi giorni sarà aperta e felice, spero, come le sue sorelle.
L'ho portata a casa passeggiando fra bella gente, come un augurio di stare senza pensieri, senza preoccupazioni, nel futuro che mi e ci si apre davanti.

Rosa Sans Souci - Barni

mercoledì 9 maggio 2012

Kitchen Garden Day: 26 agosto 2012

Il 26 agosto sarà la giornata mondiale dei kitchen garden. Volevo anticiparlo così se qualcuno, a differenza di me, ha vacanze da pianificare può evitare di abbandonare il suo orto proprio nella sua festa.
Ed e' una scusa per segnalare un sito e una newsletter che mi fanno contenta, all'insegna della coltivazione e della vita frugale...coltiva molto e spendi poco, ve l'ho già detto che mi sembra la strada della felicita'?

martedì 8 maggio 2012

La vie en rose

E' una mattinata nervosa. Sono a casa, sempre in malattia perché lei fa ancora venire le contrazioni.
Sono distante dal lavoro abbastanza per avvertire tutta la follia degli sforzi compiuti in ufficio, la miopia del rincorrere sempre nuove parole d'ordine per non finire quello che si sta facendo, per avere sempre una nuova sfida - come dicono loro - come se la vita non ne ponesse abbastanza, come se senza non si potesse stare.
Sono ancora vicina, ancora invischiata come un moscerino nella ragnatela, abbastanza da sentirmi in colpa per questa frenesia che non mi appartiene. Non so se, come e quando la recupererò, presa come sono dal senso estremo della generazione della mia pancia e del mio giardino.
Eppure dovrò, prima o poi, altrimenti non si mangia, altrimenti si annoia il prossimo, altrimenti non si vive. Forse.
La' fuori ci sono le rose. Che a fare un fiore e solo quello ci mettono il tempo che ci vuole. Che non mutano da giallo a rosso se non ce n'e' ragione, che sanno essere quello che sono, sono capaci di prendere una decisione e portarla a termine, con la cocciutaggine di chi sa di essere nel giusto.
Sono una persona che vorrebbe imitare le rose e non ne e' capace.
Sono affascinata dalla capacita' di generare senza riuscire ad abbandonarmi a queste sensazioni senza terrore.
Sono piena di consapevolezza sul non senso e non so creare alternative per la mia vanità e per il mio bisogno di essere anche animale sociale.
Sono fregata dall'essermi sentita dire troppo a lungo che sono intelligente e che devo lasciare un segno nel mondo.
Come se finire le slides fosse un tratto di matita nella tela del Pianeta, dove ho l'impressione che una rosa, o una bambina, contino molto di più.
Insomma, anche oggi niente di nuovo. Solo l'ennesimo post simile a quello che mi spinse a cominciare questo diario oltre un anno fa.
Nel mezzo ho cambiato così tante cose, mi sono affannata tanto.
Eppure il dilemma e' sempre lo stesso.
Vediamo come si sanerà e se prima o poi sarò capace di dare una risposta.
Rosa peonia senza nome, che viene dalla campagna
Rosa Cocktail
Rosa Serenissima Barni lilla celeste

giovedì 3 maggio 2012

Cosa fa l'amore...

Lasciate perdere la biancheria stesa dietro della vicina, che rovina un po' l'insieme estetico, ma voi ve la ricordate questa rosa? L'ho ereditata dai precedenti proprietari del giardino e in due anni aveva fatto un fiore in tutto.
Per forza: stava dalla parte sbagliata, quella senza sole, non era mai stata potata e aveva un legno che ci si poteva fare un tavolino.
Sopravviveva a stento fra oidio da umidità e pidocchi, così triste e sbagliata che non avevo nemmeno capito di che colore fosse.
Il primo passo e' stato potarla. Il secondo attaccarla alla pergola, che ritrovasse la sua natura.
Il terzo, semplicemente, volerle un po' di bene. Come e' successo con il ribes, la ricompensa arriva, il giardino non delude.
Ecco, forse e' questo il filo conduttore di questa primavera piovosa e incerta.
Amare e curare, covare fiori e piantine dell'orto come faccio con questa bambina in pancia.
Sperare e pazientare, quest'anno più che mai perché con così poco sole, con così poche certezze, e' tutto più difficile.
L'arco di rose gialle mi fa ben pensare quando apro la finestra la mattina, mi fa guardare a luglio, a un'altra rosa, a un pomodoro, a una zucchina, che avrà la mia e la nostra faccia, che ora mi tremola in pancia e presto avrà una voce e starà al sole, come i miei fiori.
Rosa rampicante gialla senza nome

martedì 1 maggio 2012

venerdì 27 aprile 2012

Tenerezza e' uno stenditoio di vestiti piccoli

E' ufficiale, il guardaroba di Leda e' molto più ampio e decisamente più firmato del mio.
Da quando si e' sparsa la voce che non mi offendo se mi viene offerto di riciclare vestitini e carabattole per infanti l'armadio della bambina ha cominciato ad arricchirsi a velocità sostenuta.
Noto un certo senso di liberazione nei genitori che ti scaricano sacchetti di robina ventiquattro mesi.
Negli occhi hanno chiarissimo un augurio, "ce la puoi fare" e un immenso quanto silente "abbiamo già dato, alleluia!"
Come non capirli? Io guardo con la stessa faccia le donne incinte al terzo mese .
Comunque e' bella, questa girandola di capi di eta' e stagioni varie.
Pazienza se in mezzo c'e' una tuta di pile da alta montagna da indossare a un'eta' che tua figlia avrà nel luglio del 2015.
Magari sarà molto grande già l'inverno prima, oppure sarà una bambina minuta e andrà bene l'anno dopo. Questa seconda ipotesi e' geneticamente improbabile, ma finche' e' nella pancia e' bello crederci.
Altrimenti la ruota ripartirà e ci saranno altre neomamme riciclone da guardare con occhi compassionevoli.

sabato 21 aprile 2012

E ribes fu.

Per chi ha seguito le vicissitudini del mio ribes.
Per chi ha pensato che avrebbe finito per essere la prima pianta buttata della mia vita.
Per chi ha aveva scommesso un euro che non avrebbe mai fatto mai un frutto
A sorpresa.
Senza che mi accorgessi della ben che minima infiorescenza.
Due grappolini per un totale di cinque bacche.
La vita e' bella.

Aggiornamenti dall'orto

Dopo giorni e giorni di pioggia finalmente un po' di sole a scaldare l'orto.
Qualche cenno veloce sullo stato delle piantine, poi vi racconto meglio.
Zucchine: soddisfazione somma. Piantate piu' tardi dei peperoni e dei pomodori (fine febbraio - inizio marzo) sono germinate quasi tutte e crescono che e' un piacere nonostante il poco sole e l'umidita' allucinante.
Pomodori: trapiantati nella cassa, nonostante le intemperie resistono e crescono. I miei eroi cuore di bue non tradiscono mai.
Peperoni: piccoli e lenti, ma lo so che non hanno l'esuberanza degli altri ortaggi. Vorrebbero piu' caldo e piu' secco, ma sono passati dal portauovo al vasetto e mettono fuori le loro foglioline con perseveranza. Ce la possiamo fare.
Melanzane: una gioia, fin troppe. Occorrera' diradarle prima o poi, intanto le lascio crescere ancora un po'.
Aromatiche perfette: l'inverno sotto al portico le ha fatte sopravvivere e adesso sono divertenti, con la distesa di menta e le fragole tutte in fiore, mentre il timo si e' messo la mimetica fra foglie vecchie e nuove.
Oggi, direttamente nei vasoni, si seminano basilico e camomilla perche' avere le mie foglie e i miei fiori per condire e' stata una delle cose piu' piacevoli dell'inverno.
Infine: la prima rosa degli infiniti boccioli che hanno tutte, incluse quelle storiche e quelle che l'anno scorso mi hanno fatto un fiore solo in tutto l'anno. La solita consolazione in questa primavera cosi' faticosa, con Leda che fa penare e il riposo forzato che puo' essere il sogno solo di chi non lo deve fare.
Se pero' viene il sole, se pero' vengono le rose, allora ce la possiamo fare.

martedì 27 marzo 2012

Caro Signor Sindaco

Caro Signor Sindaco,
Ci permettiamo di disturbarla per una questione che, in questi tempi burrascosi, puo' sicuramente sembrare minore, ma a cui, come capira', noi teniamo molto.
Siamo una coppia di suoi concittadini acquisiti come tanti. Originaria dell'Emilia io, mezzo lombardo mezzo piemontese mio marito, da ormai dieci anni viviamo a Milano, che e' fuori da ogni dubbio la nostra citta'. 
Questo villaggio del terzo millennio, lontano dal caos delle metropoli asiatiche che conosciamo, piccolo e vivibile da attraversarlo in bicicletta, ma al contempo vivo, pieno di facce diverse, collegato al mondo, e' la dimensione ideale che, in questo momento, abbiamo scelto per la nostra famiglia. 
Gia', perche' se tutto va bene e in questi casi la scaramanzia e' d'obbligo, da luglio ci sara' una concittadina in piu'. 
Si chiamera' Leda e possiamo assicurarle che faremo di tutto perche' ami e rispetti questo luogo e i suoi abitanti come lo facciamo noi. Le abbiamo scelto un nome antico - greco anche se i greci in questo periodo li si nomina solo per i default finanziari - perche' si puo' pronunciare agevolmente in tutte le lingue ed e' facile da scrivere in qualunque alfabeto.
Non sappiamo, infatti, dove Leda decidera' di trascorrere la sua vita, ma sappiamo che partira' da qui, che la prima immagine di citta' che avra' sara' Milano.
Ora. Deve sapere che il padre della bambina ed io non siamo credenti. Non siamo cattolici, ma neanche buddisti o protestanti. Siamo semplicemente atei, atei estremamente rispettosi dei credi altrui.
Gia' ai tempi del nostro matrimonio, celebrato cinque anni fa, ci infastidiva chi ci diceva che era "un peccato" sposarci in Comune, perche' sarebbe stato meno coreografico di un'entrata in chiesa. Al di la' del fatto che troviamo gli articoli del Codice Civile legati alla costituzione in famiglia bellissimi e pieni di significato e che essere sposati da un'amica, Assessore della cittadina dove sono nata, e' stato per noi il migliore dei matrimoni possibili, troviamo avvilente l'idea di ridurre un rituale religioso a una mera questione estetica, a un rintocco di campane e alla ripetizione di formule che per noi, ma non per un credente, non rivestono nessun significato.
Pensiamo che sia irrispettoso verso chi crede in un dio che benedice le nozze, a cui si fanno promesse che noi abbiamo fatto solo a noi stessi, alle comunita' e allo Stato in cui abbiamo scelto di abitare.
La nascita di Leda ci porra' davanti una questione ben piu' spinosa perche', come sa, un battesimo civile, a oggi, non esiste. Tutti i nostri amici stanno battezzando i loro figli e di amici credenti al momento non ne abbiamo molti. Alcuni lo fanno per quieto vivere, per pressioni familiari, ma per fortuna questo non e' il nostro caso. Le nostre famiglie rispettano le nostre scelte. 
Altri perche' pensano che occorra una festa per celebrare qualcosa di prezioso come una nascita e lo Stato non offre un rito di ingresso nella comunita' che sia anche solo paragonabile al battesimo. Noi siamo d'accordo con loro, ma non ci sentiamo di mettere in bocca alla  nostra neonata una promessa di rinunciare al demonio. Lo fara'' lei, se lo vorra', quando avra' l'eta' della ragione. Per rispetto nostro, di nostra figlia e dei credenti che danno senso a quelle parole, non prenderemo impegni a suo nome per il solo desiderio di farle una festa. Pero' ci dispiace molto.
Eccoci finalmente alla nostra richiesta. 
Caro Sindaco, aiuta noi e le altre famiglie che lo verranno a inaugurare a Milano un rito civile per la nascita dei bambini? 
Non pensiamo a niente di costoso, sa, sappiamo che le casse del Comune non consentono sprechi. 
Basterebbe piantare un albero in un parco cittadino insieme agli altri genitori e poi fare un pic nic tutti insieme se e' estate, oppure trovarci una mattina a Palazzo Marino con un bicchiere di aranciata nelle altre stagioni. 
Basterebbe che lei o un suo Assessore veniste a dare il benvenuto a questi piccoli cittadini, invitando i loro genitori a tirarli su rispettosi del bene comune. Sappiamo che trovereste le parole giuste per farlo.
Sarebbe un bel segnale per i genitori laici e sposati, per quelli religiosi e non sposati, per madri e padri di altri credi, milanesi impatriati come noi, ma anche per chi ha una religione che gli offre un battesimo. Perche' oltre a far parte della comunita' cattolica tutti i bambini sono parte di quella cittadina e, come tali, ci sembra giusto dir loro "ben arrivati".
Signor Sindaco, lei ci ha chiesto di votarla per costruire insieme una citta' gentile. Ci ha conquistati con quell'espressione, perche' e' talmente piu' ricca e démodé dell'abusato "inclusiva", del banale "accogliente", del retorico "di tutti", che anche oggi, a un po' di amministrazione di distanza dalla campagna elettorale, ci fa commuovere.
In nome della citta' gentile le chiediamo di costruire insieme a noi un rito di benvenuto per i nostri bambini. 
Leda e i suoi genitori in divenire la ringraziano in anticipo.

martedì 20 marzo 2012

Lo so che devo lavorare, lo so, lo so...

...Però ho appena trovato un sito incantevole e ve lo dovevo dire.
Se non state lavorando e potete passarci un paio d'ore guardate qui.
Se tutto va bene è superfamoso, lo conoscevate già tutti, sono come sempre l'ultima che arriva sulle cose e vivo sul Pianeta Papalla con i miei gatti, le mie piante e le bambine ballerine.
Leda early adopter? Ma quando mai! Questo sarebbe il commento tecnico di mio marito il markettaro.
Artigiani di tutto il mondo unitevi e producete non modelli di vendita e consumo come questo.
Io sono con voi!

lunedì 19 marzo 2012

Giardinaggio passivo

Sabato e' stata la giornata annuale della primavera in giardino. 
E' quel giorno spettacolare in cui si fatica tantissimo per rinvasare tutto quello che ha bisogno di una nuova casa, si dispongono le piante in modo nuovo per assecondare quello che e' andato bene l'anno prima, le rose tutte dalla parte dove non hanno preso l'oidio l'estate scorsa, la camelia dove avra' ombra dal glicine nel caldo feroce di luglio, gli oleandri ovunque, tanto qualunque posizione e' buona. 
Si spostano tonnellate di terra, si rischia tagliando pani di radici troppo infittite e sperando che i vecchi alberi la prendano come una buona notizia, si osserva l'orto immaginando le piantine piccolissime che fra poco lo popoleranno, si ammirano i getti freschi e si spera che tutto quello che non e' successo la scorsa stagione accada. 
Io ho mangiato con l'immaginazione ribes e more, tanto per dirne una.
Il problema e' che quest'anno non ho toccato una radice, non ho girato un vaso, non ho svuotato un sacco di terra.
Al massimo ho tolto le foglie vecchie alle fragole e rammendato la tela del dondolo.
Difetti del pancione, nessuno ti fa toccare niente per paura - fondata - che tu svenga in mezzo al giardino. Se poi hai in pancia una bambina che ha deciso che fa la cyclette sui tuoi organi interni venti ore al giorno e che ti fa stare sveglia la notte innervosendo tutti i metri di intestino che hai, la preoccupazione della tua famiglia va alle stelle.
Il povero marito, accompagnato dalla mia povera mamma e dal mio povero padre, ha spalato tutto il giorno, trovando anche inusitate delicatezze nelle mani a paletta per trapiantare la rosa viola di Barni. 
Ora il  giardino e' bellissimo, le piante sempre piu' grandi, segrete e incombenti nei loro vasi finalmente definitivi, la struttura impostata e pronta ad essere affiancata dalle annuali e dalle verdure, uno spazio per il melograno di Leda, che arrivera' quando arriverà lei, non prima. 
E' li' che staremo a conoscerci, se andra' tutto bene e a luglio sara' con noi.
E in quel giardino ci sara' l'altalena per lei, appena sara' abbastanza grande. 
Mentre l'aspetto, nella mia passivita' obbligata di gestante, faccio da mangiare. Il coniuge dice che sono pure migliorata. In realta' ci metto solo un po' piu' tempo ed energia. 
Ormai i plumcake e i muffin della colazione sono impegni settimanali, a cui si e' aggiunto il pane fatto con la macchina scartata dalla mia collega, che riempie la casa di profumo e di semi e di farine nere.
Eccomi qui, immobilizzata a cucinare cereali mentre altri curano il mio giardino piantando le rose con l'innesto sempre leggermente troppo basso rispetto a come l'avrei messo io. Questa primavera va cosi'. 
Ci sara' tempo per tornare all'aperto, a scavare con una paletta piccola insieme a qualcuno che deve ancora scoprire tutti i nomi dei fiori.

mercoledì 14 marzo 2012

La Signora delle Camelie (e una rivelazione sulle matrioske)

Dopo una notte burrascosa, perche' Leda ha dichiarato guerra al mio intestino al grido di "questo addome e' troppo piccolo per noi due" provocando una delle solite coliche, mi sono svegliata nel mio letto, episodio che gia' tinge di rosa la giornata.
Mi sono alzata, ho guardato i gatti giocare a guardia e ladri con lo sportellino, ho risposto a un paio di mail perche' il capo non dorme mai, ho messo il pane a cuocere (poi vi racconto anche questa, e' una novita' del week end scorso che va sempre sotto il capitolo "zerorelativo fai da te: quello che ingombra lo sgabuzzino di un altro e' quello che hai sempre sognato di possedere").
Poi sono uscita. Oltre alle rose che fanno foglie come se si svegliassero da un sonno di pochi minuti, le talee dell'anno scorso appena piu' timide delle loro sorelle radicate. Oltre il ribes che e' tutto verde e se quest'anno non fa frutti lo elimino. Oltre al limone che lotta insieme a noi per riprendersi dal gelo.
Insomma, oltre a tutto: la Signora delle Camelie, o Sua Signoria la Camelia. Aggraziata nella sua esagerazione, matura e adulta come nessuna delle piante del giardino, saggia nel suo produrre questi grandi boccioli eterni, che pensi non sbocceranno mai invece un mattino eccoli li', enormi e di colore improbabile ed estivo, struggenti nella loro perfezione curata nel dettaglio. E' l'unica nobildonna di un giardino di piante zingare, di piante contadine come la loro padrona. Arriva per prima e resta li', affidabile e solida, con questa classe millenaria che sai non ti abbandonera'.
Benvenuta anche quest'anno, Signora Camelia. L'infante che rotola in pancia ed io le porgiamo i nostri omaggi.

P.S. Ho appena riletto il post e mi sono accorta di un particolare che poteva sonvolgere i miei due lettori occasionali. Esatto, avete capito bene. La matrioska e' completa: Leda (che sarei io) ha in pancia Leda (che sarebbe la bambina). L'unica differenza e' che questo nome la matrioska grande se l'e' scelto, quella piccola se lo trovera' all'anagrafe. Spero che sapere che mi sono sempre chiamata cosi' le dia un'indicazione del fatto che e' stata molto sognata, prima che si degnasse di arrivare qui dentro...

lunedì 12 marzo 2012

Pipini

Voi la conoscete l'Autostrada del Sole? Io sì, purtroppo, molto bene. Un tratto in particolare ce l'ho chiarissimo, perchè è la strada che porta a Bassottiland.
A fianco delle corsie corre il treno ad alta velocità, quindi è un'infinita distesa di tralicci dell'alta tensione, chilometri e chilometri di questi altissimi fili per il bucato che fanno andare gli occhi su e giù, seguendo le onde.
Sui fili ci sono tantissimi pipini, che sarebbero poi gli uccellini.
Hanno spazio a volontà, potrebbero mettersi uno al chilometro, tenersi belli distanti nella pancia delle curve, che forse è più comoda.
Invece si mettono tutti vicini vicini. Percorrere quell'autostrada, in un mattino di quasi primavera, è seguire con la coda dell'occhio un ricamo di passerrotti stretti l'uno all'altro, a decorare come paillettes scure la strada per Bassottiland.
Chissà cosa avranno da dirsi, tutti quei pipini?
Forse avranno un messaggio da sussurrarsi: "Guarda che cretine, le persone. Ognuna di loro in una scatoletta, ognuna distante dalle altre. Persi con lo sguardo all'orizzonte verso qualcosa di diverso e sempre uguale, quando per essere felici basta stare stretti stretti e guardare tutto un po' dall'alto."
Già, bambina, penso si stiano dicendo proprio questo.
Tu ascoltali e impara più da loro che da me, che ti porto a spasso nella scatoletta. 

domenica 11 marzo 2012

I primigeniti

La bambina e' avvisata. I quadrupedi l'hanno preceduta e fara' meglio ad affilare le unghie.

Zerorelativo fai da te

Una delle conseguenze peggiori dell'essere incinta  - oltre ovviamente all'ipocondria elevata alla seconda, ai disagi psicofisici, all'ascolto eccessivo del corpo e agli innumerevoli prelievi di sangue per gli esami continui - e' l'attacco del marketing, che ti prende vulnerabilissima per i motivi di cui sopra.
Io come potete intuire resisto senza nessun problema all'elemento fashion, che mi interessa come le sorti politiche di Maurizio Gasparri (scusate, ma al momento ce l'ho davanti in televisione). I marchi non mi fanno nessun effetto se non una certa diffidenza. Dico spesso che se avessi fatto una passeggiata di domenica a Bassottiland e avessi visto il quantitativo di Vuitton che girano per strada non avrei mai fatto l'errore di trasferirmi li'. Insomma, se una cosa e' firmata istintivamente cerco di starne alla larga.
Lo stesso effetto me lo fa il made in Italy forzato. Mi interessa che un bene sia ben fatto, che sia controllato, che non lo producano bambini e che non abbia un impatto ambientale devastante. Che poi lo facciano qui o in qualche altra parte del mondo per me e' irrilevante, lo sviluppo del territorio non si fa sostenendo artificialmente aziende e settori morti, ma con ben altre leve.
Persino l'estetica mi interessa fino a un certo punto. Prolificano i passeggini a tre ruote, la versione bimbica delle quattro ruote motrici e dei suv, che non si capisce come migliorino l'esistenza se uno non abita in una baita alpina e va a scalare col pupo (ma a quel punto spero che intervengano i servizi sociali). A me i bambini sembrano tanto belli qualunque cosa abbiano addosso, qualunque veicolo li trasporti, che non riesco a fare davvero caso a quanto e' zen il seggiolone minimalista. Nel mio quartiere c'e' pieno di bambini di famiglie migranti, il cui bilancio non prevede certo la sostituzione del passeggino azzurro con uno rosa perché' la secondogenita e' femmina e l'estetica dell'isolato non ne e' certo danneggiata.

L'attacco del marketing su di me colpisce un'altra leva: la sicurezza e la salute della bambina. Avrei voluto usare una culla di vimini che mi ha fatto Ciro in campagna anni fa, prima che Leda fosse anche solo un'idea. Come resistere pero' al terrore che sia mal costruita, che dondolando la piccola si giri e soffochi? Come si fa a puntare sull'autoproduzione quando il salice curvato puo' finire nell'occhio neonato di questa bimba cosi' difficile da produrre? 
La voce del marketing sussurra attraverso quella delle mamme dei forum e ti rende indispensabile lo sterilizzatore a microonde, il nuovo modello di paraspigoli, riduce a una roulette russa il box all'interno del quale sei cresciuta. 
Tutto quello che di razionale c'e' in te si ribella a questo sussurro costante e isterico, ma c'e' qualcosa di atavico che ti spinge a tornare un'altra volta su pianetamamma, a suggere pillole di saggezza da quelle che hanno abolito la cannella dalla loro dieta, che hanno allontanato i loro poveri gatti appena rimaste incinte, che non toccano piu' la terra e non lo faranno fare nemmeno alla prole.
Hai pero' ancora una dignita', quindi non molli.

La soluzione pero' c'e' e si chiama passaparola.
Pochi anni prima di te, qualche tua collega e' sicuramente rimasta incinta, qualche maschio e' diventato papa'. Forse hanno ceduto alle vocine urlanti, forse hanno resistito ma i nonni no. E ora si ritrovano con bimbi cresciuti e le case piene di cose sicure, costose, ormai inutili. Di solito ti offrono i loro averi timidissimi, mettendo all'inizio un "se non ti offendi...avrei un seggiolone nuovo usato due volte...", "ho uno sterilizzatore, nuovo sai, me ne hanno regalati quattro".
 Insomma, si apre uno scrigno delle meraviglie e dalle case altrui emerge, gratis o a poco prezzo, tutto quello che ti serve. La cosa essenziale e' tenere bene la roba, per passare poi tutto quanto al prossimo che non si offende. 

Stamattina con grande gioia sono andata a prendere il lettino di Leda a casa di un collega che sta per lasciare Bassottiland. Mi hanno dato anche i piattini per la pappa e un dosatore per il latte artificiale (non si sa mai). Parlando e' venuto fuori che forse un seggiolone mi attende dalla cognata di sua moglie. 
Certo, il lettino e' azzurro e il portapappe arancione. La bambina si formalizzera' perche' non e' rosa? Mi andra' in crisi di identita' come Lady Oscar? Non credo proprio...

Sara' meno bella perche' sara' sfuggita al fashion,alla marca, anche se, purtroppo, non all'ipocondria di sua madre? 
Penso proprio di no.

P.S. Oggi abbiamo mangiato le prime olive da un vasetto dei nostri. Mi sono sembrate le piu' buone del mondo.

sabato 10 marzo 2012

Yogurt al pomodoro

Le piantine di pomodoro mi sembravano abbastanza grandi per il travaso nei vasetti dello yogurt al pistacchio (compagni inseparabili della mia gravidanza, che si caratterizza per una voglia insaziabile di cibo siciliano, essenzialmente panelle e pistacchi).
Ora e' tutto in lavanderia alla luce e senza termosifone, in attesa che si scaldi questo sole ancora freddo.

Benvenuta

Benvenuta bambina mia.
Benvenuta che mi vengono le lacrime agli occhi a pensare che allora e' vero, che allora sei li' e stai bene e cresci. A pensare che sei femmina, come non ho mai immaginato davvero potessi non essere.
Benvenuta nella mia pancia dove stai da un sacco di tempo, a bere un po' del mio caffelatte la mattina, a ingozzarti di ceci come me, a spaventarti di nulla in macchina e a distrarti in questi giorni di lavoro improbabile, con la primavera che si sa sta arrivando! Che e' gia' li' ad aspettare, come faccio io con te.
Benvenuta bambina con le mani gia' sporche di terra, per tutti quei trapianti fatti quando non sapevo ancora tu ci fossi, per tutte le verdure in semente preparate in questo mese per dimenticare che fosse ancora freddo, ancora febbraio. 
Te ne fregherai dei pomodori, quando uscirai di li', ma vorrei che il loro rosso, il verde del basilico, il viola delle melanzane fossero li' ad aspettare i tuoi occhi nuovi nuovi, per stupirti e farti capire in quale posto divertente, tutto sommato, tu sia capitata.
Benvenuta nella citta' bassotto che ti prometto non vedrai e non vivrai nella sua piccolezza e soprattutto benvenuta a casa tua, nel tuo giardino che spero ti piacera', perche' e' fatto su misura delle mie fantasie di quando ero grande come sarai tu fra poco.
In questi giorni e' morto Lucio Dalla e continuo a canticchiare la prima canzone che il tuo nonno a venire ha cantato quando ha saputo che c'eri tu in arrivo.
"se sara' femmina si chiamera' futura". 
Perche' come tutte le bambine anche tu porti sulle spalle generazioni di aspettative. Molte piu' di quelle che avrebbe portato il tuo fratello che non e' stato. Hai gia' sulla tua schiena ad arco, dove si contano tutte le vertebre perche' l'ecografia ti fa trasparente, il peso delle donne che non ce l'hanno fatta, che sono state schiave, che hanno pianto di rabbia per uomini meno in gamba di loro che schiacciavano loro i piedi e la testa.
Da parte mia, cerchero' di farti portare con leggerezza il senso di riscatto che so non potrai non avvertire. Avrai fiori e altalene per distrarti, perche' non c'e' niente di piu' bello di avere solo il cielo sopra e pensare che tu ci stai andando come un proiettile e che scenderai solo per prendere di nuovo la spinta.
Benvenuta, bambina, che solo adesso sembri vera a tutti quanti, solo adesso sei davvero scesa dalla luna per venire a casa, in ufficio, in mensa, in eterne riunioni noiose. 
La gente riesce a immaginarci tutte e due come una matrioska, che non vedi la bambola piccola ma sai che c'e' e io, finalmente, faccio pace com te, alieno che te ne stai li' a parlarmi col tuo linguaggio di pugni.
Mettiamoci d'accordo, bambina mia. Tu stai li', a crescere e a maturare. Cerca di venire bene, bella intera, tutta funzionante. Mangiami finche' ti pare, basta che ti impegni nel tuo lavoro di oggi. 
Io faro' il mio e ti preparero' il nido, che e' questa casa ma sono soprattutto io. Mi faro' le spalle solide per quanto posso, cerchero' di essere salda e serena come tu hai bisogno che io sia. Cerchero' di farti ascoltare da tuo padre, che deve imparare a capirti anche se tu ancora i pugni a lui non li puoi dare.
Facciamo tutte e due del nostro meglio, bambina mia che sei la piu' imprevedibile delle promesse, che l'estate arriva presto. 

lunedì 5 marzo 2012

Telefono da casa

L'avevo fatto in Cina.
Mettermi davanti a una Ferrari spacciata a miliardari con gli occhi a mandorla in un'orrenda strada di Shangai, con addosso il mio vestitino di lino marrone (ci rientrero' mai?) appiccicato sulle cosciotte per caldo umidita' smog. Aprire gli occhioni al massimo, cosi' diventano infinitamente tondi. Alzare l'indice della mano destra e farmi fotografare con l'espressione di ET.
Oggi mi sento uguale. Sdraiata con il computer in grembo a lavorare dal mio divano, con intorno i miei gatti, i miei odori, la mia vasca da bagno di la', i germogli che germogliano in lavanderia e la pioggia che bagna le rose che esplodono dal legno.
Telefono casa.
Telefono da casa.
Voglio restare qui.

sabato 3 marzo 2012

Bollettino

Sei piantine di pomodoro sono spuntate.
Una soltanto di peperone, al momento.
Semina di entrambi il 13 febbraio scorso. Ieri tutto l'ambaradan (confezioni delle uova germinate e non) si e' spostato dalla citta' bassotto a casa, visto che per quattro giorni non saro' la'. Durante la giornata, mentre ero al lavoro e in attesa del viaggio serale, le vaschette sono rimaste sul lunotto anteriore della macchina e ho scoperto che e' una serra fantastica. Il sole passa bene, la temperatura e' perfetta, fatto sta che sono sbucate in mezza giornata tre nuove testine di pomodoro.
La cosa piu' divertente e' stata la faccia dei colleghi che passavano a fianco di quell'auto palesemente vegetante. Mi sembra un buon esempio del dare un messaggio senza dare un modello e senza fare prediche. Si puo' fare l'orto sul lunotto di una scatoletta giapponese, vedete un po' voi se davvero l'autoproduzione e' troppo difficile per voi, oppure se e' ora di liberarsi dalle scuse.
Le petunie invece sono rimaste nella tana dello scoiattolo, ma non vengono bene, forse c'e' troppo poco sole. Spuntano capolini che sembrano funghi ma poi muoiono. Devo capire se do troppa acqua, oppure se le vaschette della verdura non vanno bene per seminare.
Voglio condividere l'ultima idea di riciclaggio che mi e' venuta. Forse e' banale, ma mi sembra buona. Appena i pomodori saranno abbastanza grandi dovro' travasarsi in vasetti da 8 centimetri circa, per farle radicare bene prima della messa a dimora nelle cassette definitive, a fine aprile. Mi e' venuto in mente di bucare i vasetti dello yogurt, che con il bimbo in arrivo ne devo mangiare tantissimo. Mi sembra bello immaginare tutte le piantine in bianco prima dell'arrivo dei frutti.
Oggi ho seminato zucchine e melanzane.
La pancia spunta, spunta un bel po'.
Una primavera di attese. Come sempre, molto piu' di sempre.

Risveglio verde

giovedì 23 febbraio 2012

Alla ricerca di un non-modello

Questo è un post difficile e politico.
Quindi lo comincio anche se non so se e quando lo finirò.
Il tema è la parola "modello".

Allora, sembra chiaro ai più che il mondo nord-occidentale (forse si può restringere ancora il campo, di sicuro si può parlare di Europa) ha cominciato a percepire con forza crescente i punti deboli del paradigma di sviluppo che ha dato per scontato fino ad oggi. Questo spero che possiamo dircelo senza approfondire la questione della crisi economica, del crollo - più che annunciato - del welfare come l'abbiamo conosciuto eccetera.
In più, ci sono segnali sempre più forti di insoddisfazione rispetto a come l'individuo si relaziona con la società. Su questo sono molto meno confidente, ma mi sembra proprio così, ho raccontato molte storie in questi mesi che parlavano esattamente di questo. Ve ne posso aggiungere una al giorno. A fianco di persone che vogliono un lavoro a tutti i costi ce ne sono sempre di più che si chiedono quale e, soprattutto, perchè. L'entusiasmo che percepisco per le forme autonome, indipendenti, di guadagnarsi il pane, anche se sono più manuali, più faticose, meno qualificate dal punto di vista della formazione scolastica mi sembra evidente e quasi di massa.
Mio marito mi ha detto "c'e' un articolo sul downshifting sul Corriere, sei arrivata in ritardo.". Invece no, a me interessano le cose di massa, mica i fenomeni emergenti.
L'organizzazione, l'azienda, stringe, lega, fa male. Dà il senso che si stia sprecando la vita a occuparsi di come ci si inserisce in un contesto sociale e organizzato più che a fare cose e risolvere problemi.
Questo la generazione precedente non lo capisce.

Faccio un esempio.
La mia amica ha superato il limite con la sua capa. E' una di quelle persone che immagini non si arrabbieranno mai con gli altri, al massimo con se stesse, invece ha un fondo battagliero e forte e intenso.
Una volta passato il confine ideale della sua rabbia, ha cominciato a farle la guerra sistematicamente, ogni giorno. Su cosa? Su cio' che la sua capa, che ha i capelli bianchi e cinquant'anni, non può nemmeno capire. Sull'assenza di condivisione.
Per un burocrate aziendale della precedente generazione la gestione dell'informazione è potere e il lavoro non serve a ottenere dei risultati, a realizzare delle cose - far crescere una pianta, fare una torta, tirar su una casa - ma a confermare un ruolo all'interno della microsocietà che è il suo mondo. Se il burocrate è sano lo scopo è guadagnare più soldi, ma spesso, molto spesso, non è nemmeno così. Di frequente l'obiettivo del suo comportamento è solo avere un posto un gradino più in alto rispetto al proprio collega, chissa' poi per farci cosa. Condividere, in quest'ottica, è improduttivo, perchè riduce e annacqua una visibilità che deve essere esclusiva. Non importa se è inefficiente per la realizzazione di un'iniziativa, è funzionale all'affermazione del sè. Basta una e-mail non inoltrata, l'omissione di un cc ed e' fatta. Come fra bambini, a fronte di un'azienda, un micromondo che va palesemente a rotoli.
Beh, per la mia amica l'affermazione del sè non ha nulla a che fare con i saluti che riceve nei corridoi dell'azienda. Non e' essere temuta e odiata. Non e' essere invitata per forza e con la bocca storta a una riunione.
Per lei, che è giovane e non sa nemmeno esattamente se ha senso pensare a un cosa fare da grande, tutto ciò che ha senso è riuscire a fare qualcosa di reale, di vero, di appagante ora, per sè e per gli altri. Viene al lavoro per lavorare ed è sorpresa e amareggiata nel vedere che questo non è quello che le viene richiesto.
Lei condivide perchè le serve, perchè pensa sinceramente che diverse teste pensino meglio di una, perchè odia il conflitto inutile che si crea non sull'oggetto ma sul soggetto del compito da fare. Vuole essere serena e con lei gli altri, facendo qualcosa per il mondo, o almeno per il suo. E' convinta, come lo sono io d'altra parte, che nelle pieghe di un'azienda possa scapparci il senso, se quei soldi fatti convincendo qualcuno che mangiare una brioche nel sacchetto di plastica e' meglio che farsi un plumcake vanno, anche se in minima parte, a qualcuno che non ha scelta, perche' non puo' comprare ne' la brioche ne' la farina. Per questo chiama le forze a raccolta.
La capisco perchè è la stessa sensazione che ho io quando apro un giornale di giardini e ho l'impressione che chi ci scrive ignori le piante, la loro salute e la loro provenienza, che quasi consideri fastidioso che siano vive e si preoccupi di tutt'altro.
Lavorare senza condividerne il senso per lei è come per me essere giardinieri senza essere animisti, non so se riesco a spiegarmi.
Comunque.
E' palese che l'insoddisfazione della mia amica non è riservata a una burocrate con i capelli bianchi, si indirizza al suo ruolo all'interno della società - azienda.

Io in questo ci vedo un tratto conduttore del tempo che cambia, della crisi del "modello" (e finalmente sono arrivare a questa parola. Sedetevi perche' e' ancora lunga).
C'è stata un'epoca, o almeno così mi raccontano, in cui i migliori, i più intelligenti, oppure i più volonterosi, si indirizzavano verso la politica, con l'idea che quella contasse davvero, che quello fosse il luogo dove le cose avvenivano e dove si poteva condividere il cambiamento. Poi la spinta in quell'universo si è spenta, a favore di altri interessi.
C'è stata un'epoca, e questa l'ho vissuta, in cui i migliori, i più intelligenti, oppure i più volonterosi, guardavano alle aziende, profit e non profit, con l'idea che là ci fosse innovazione e spazio per fare delle cose. Perchè ci si poteva trovare altra gente in gamba e un contesto costruito apposta per far venire fuori progetti e fatti.
Io, che non sono una dei migliori, non sono fra i più intelligenti, ma sono sicuramente volonterosa, sono andata verso l'impresa perchè mi sembrava che quella fosse l'organizzazione che mi consentiva di contribuire a uno "sviluppo sostenibile", anche a dispetto degli scopi dichiarati dall'organizzazione.
Perche' c'erano i soldi, le risorse, non solo economiche, perchè a forza di briciole e di sottoprodotti si costruisse un futuro migliore per i consumatori e non solo per i clienti.
Oggi ho perso questa convinzione e l'hanno persa quelli che stanno intorno a me (anche se non tutti. Ad esempio mio marito no, per fortuna. Amo stare con l'ultimo dei moicani, da questo punto di vista, perchè in fondo vorrei sbagliarmi).
Il senso di sè legato a un'appartenenza politica, il senso di sè legato a un'appartenenza professionale, tutto questo oggi mi sembra più sfumato e meno definito, come se le persone volessero altro, o volessero tutto.

Siamo ritornati al pane e alle rose? Forse sì. 
Solo che non pretendiamo di attaccarci sopra una bandiera.

Ed eccomi finalmente, dopo questa eterna premessa, al titolo di questo post.
Litigo ormai da mesi con mio marito sul mio, sul nostro futuro.
L'ultima volta è stata alla cena di San Valentino in una latteria vegetariana sabato scorso (che ovviamente non era il 14 febbraio, ma di martedi' sto a bassottiland).
Sono entrata in questo posto e l'ho trovato bellissimo. Mi piaceva la signora che portava in tavola i piatti e ti chiedeva come li avevi trovati, perchè sperimenta. Mi piaceva il posto con pochi tavoli e molte idee, i muri azzurro intenso.
Ho detto incautamente: "Come mi piacerebbe mettere su un posto così".

Un posto dove la gente trova partecipazione senza trovare un partito.
Un posto dove la gente mangia la torta e impara a farla.
Un posto dove la mia vicina che prima di compiere ottant'anni faceva la sarta insegna a far da sè cose che una volta sapevano fare tutti (far l'orlo, mettere una toppa, attaccare i bottoni).
Un posto all'insegna della riduzione dello spreco, dove chi vuole può vedere applicato il principio che fa da filo conduttore al mio nuovo modo di vedere la vita, cioè che per essere felice puoi scegliere se guadagnare sempre di più o far costare la tua giornata di meno pur avendo le stesse cose, o di più.
Un posto dove fai le talee invece di andare al garden center.
Un posto dove pianti i semi e vedi crescere le petunie. Apro una parentesi, appena nate sembrano piccoli funghi, è una cosa molto strana.
Un posto dove bevi un te' in mezzo ai fiori e parli.

Il moicano ha cominciato a farmi domande a raffica su come pensavo di mantenere questo posto, su dove l'avrei fatto, su come avrei pagato l'affitto, su chi avrebbe pagato per quel te' e per le mie poche talee, le mie poche petunie, le mie torte che una volta vengono bene una volta no.

Ho risposto per un po', poi mi sono messa a piangere, perchè ho gli ormoni fragili in questo periodo.
Non riuscivo a dirgli che quelle domande non mi interessavano, che mi facevano star male non perchè non volessi fare un bagno di realtà, ma solo perchè non erano rilevanti, sporcavano le mie frasi, le mie idee, senza portar loro valore. Lui vuole che io faccia un modello, vuole che metta insieme una serie di bisogni che vedo e che so che ci sono, che li appiccichi a un business plan e che ci cavi fuori un esempio di qualcosa che gli altri possono desiderare di fare o di volere.
Vuole che crei un terzo polo, che espressione orrenda, fra "scappo dalla città, la vita, l'amore, le vacche" (con tutto il rispetto e l'amore che porto a chi fa questa scelta) e il managerialismo moicano secondo il quale solo mettendosi tutti insieme in un'organizzazione paramilitare si può fare qualcosa di significativo (con il rispetto e l'amore che porto anche a questi eroi del nostro tempo decadente).
Io sto cercando proprio il contrario. Voglio un non - modello. Voglio vivere facendomi venire idee senza sapere se e come diventeranno mai reali. Voglio cominciare dal mio giardino e dalle relazioni nel mio condominio, per vedere se a quelle si attacca qualcosa. Voglio vedere che pensieri nuovi mi porterà l'essere ancora privo di genere che ho in pancia e che so un giorno mi darà un contributo più utile rispetto ai calci nei reni che mi rifila oggi. Voglio pensare che avrò un posto dove fare torte e vendere fiori perchè le talee si moltiplicheranno a dismisura e così i pomodori e la frutta e non mi interessa oggi che sia un'idea sostenibile, perchè sulla sostenibilità delle cose ho già lavorato troppo a lungo e nella mia testa lo è già.

Forse di non-modelli non ho bisogno soltanto io, ma anche la mia amica che odia la capa e tutti gli altri. Abbiamo bisogno di un momento di pausa creativa, da cui emergeranno approcci più strutturati, mentre ora ci accontentiamo di metter in fila esperienze su una corda da bucato, all'aperto e all'aria buona.
Così è sempre stato fin dall'inizio del mondo. La creazione non esiste, ci sono sempre vecchio e nuovo che vivono insieme in un amalgama di non paradigmi che un giorno un creativo si diverte a nominare, ma dentro cui crescono le cose. Può darsi che non si capisca subito se spuntano funghi o petunie, ma che importa, adesso?

Io in questo momento ho molte lenzuola da stendere, fra cui ci sono questi messaggi. L'essere ancora senza genere ha sicuramente un cestino di mollette con sè, con nuove associazioni, ancoraggi e cose importanti da mettere davanti al resto. Il moicano ci reggerà il filo anche se non capisce ancora, perchè si fida di noi e questo è importante.
Tutto quello che so è qui, ora, in questa attesa di primavera.