Il nuovo lavoro si porta dietro, come sempre, alcune cose interessanti. Che, come spesso accade, hanno poco o nulla a che vedere con il lavoro in quanto tale.
Fra queste ci sono le persone che incontro. L'azienda della città bassotto è divisa nettamente in due sociodemo – come direbbe mio marito.
C'è la vecchia azienda, tutte persone nate e cresciute lì, con l'accento pesante. Sono loro che hanno fatto quel posto e quella pasta, sono a casa fra le nebbie e le case buttate come dadi nella pianura. Tutta gente per bene, così mi sembra, solo assediata come castellani medioevali.
Sotto le mura ci sono i barbari, mi consenta Baricco di usare la sua terminologia perfetta e abusata. I ragazzi e le ragazze dagli accenti diversi assunti negli ultimi anni per portare quel luogo in un millennio diverso ed estraneo. Quelli che parlano in mensa in inglese con un coetaneo indiano, perchè l'unica differenza che non riescono a sormontare è proprio quella con i nativi della città bassotto.
Quelli romani e quelli filippini, quelli alti e quelli scuri, scuri in una città in cui il razzismo è sdoganato come il marrone insieme al blu nei vestiti.
Quelli con il contratto a termine, o lo stage, o la neoassunzione, che li rende al contempo arrabbiati e allegri. Arrabbiati con loro, i castellani, pasciuti e sazi e apparentemente nullafacenti dietro le loro torri di garanzie. Allegri perchè il precariato li lascia leggeri, non li obbliga a pensarsi lì per sempre.
E qui viene il punto interessante. E' successo qualcosa, secondo me, qualcosa con cui nel tempo la società del mutuo e del posto fisso dovrà fare i conti.
Per tutte queste persone la prospettiva di pensarsi fra le dune di pianura per sempre fa molta tristezza. La stabilità è per loro il sogno di qualcun altro.
Mi sento meno sola, quando parlo con loro.
Diciamo tutti le stesse cose, ed è rasserenante.
Soprattutto le ragazze sono tutte brave bambine come me. Siamo la generazione di quelle che hanno preso ottimo alle medie, sessanta alla maturità e centodieci e lode all'università.
Quelle che hanno sgomitato per entrare nel mercato del lavoro, anche più, forse, di quanto fosse necessario, convinte da madri che avevano fatto fatica sul serio che gli uomini fossero lì agguerriti ad ostacolarle. Quando in realtà erano troppo stupiti anche solo per accorgersi che stavamo arrivando e preparare una controffensiva.
Siamo noi, che ci siamo scoperte brave quasi con sorpresa, perchè in fondo è facile sembrare geniali, basta continuare a fare quello che ci hanno insegnato fin da piccole. Siamo le secchione di turno, fare tutti i compiti e studiare e garantire presenza e attenzione ci sembra il minimo, quando per molti - generazioni intere che hanno lavorato prima di noi - è oltre il massimo. Basta davvero poco in questo mondo per ritrovarsi apprezzate, se sei fatta come noi e sei in questa fase della vita, ancora senza bambini e doppie carriere a complicare (e rendere affascinante) lo schema.
Solo che siamo infelici nel nostro successo apparente.
Ci ritroviamo a trent'anni, qualcuna qualcosa in più qualcuna qualcosa in meno, con la percezione chiarissima che abbiamo fatto tutto per soddisfare gli altri che abitavano la nostra coscienza. Soprattutto le altre, penso, le nostre madri.
Vi ho detto spesso che quando a tre anni qualcuno mi chiedeva cosa volevo fare da grande, rispondevo sempre “fioraia”. Tutte noi abbiamo risposto qualcosa di diverso da quello che siamo ora: erboriste, panettiere, sarte, giornalaie, mamme. La cosa che fa male è che si tratta sempre di mestieri semplici, per molti più umili di quelli che facciamo oggi.
Mica volevamo fare tutte le astronaute o gli ingegneri nucleari.
Cosa ci ha impedito di diventare quello che volevamo?
Siamo ancora in tempo per cambiare oggi, senza perdere la faccia davanti a chi ci ha cresciuto e conosciuto ambiziose e brave e secchione?
La risposta per molte di noi è pensarsi o essere "a tempo".
Non avere più il mito del contratto a tempo indeterminato, oppure guardarlo come l'ennesimo tick di un questionario che non compiliamo più.
Qualcuna non riesce ad accedervi, è vero, ma non si tratta della volpe e l'uva, ve lo assicuro.
Non avere più il mito del contratto a tempo indeterminato, oppure guardarlo come l'ennesimo tick di un questionario che non compiliamo più.
Qualcuna non riesce ad accedervi, è vero, ma non si tratta della volpe e l'uva, ve lo assicuro.
Chi sgomita per quel contratto lo fa spesso per puntiglio, come estremo gesto della cocciutaggine o della debolezza di dover dimostrare.
Tutte quelle che non ce l'hanno ancora ce l'avranno, solo per essere più infelici di prima per un po' di tempo, finchè non capiranno che nulla è cambiato.
Non so cosa significherà per la società nel suo complesso avere una generazione intera, forse anche di più, che ha cambiato radicalmente paradigma, almeno nella sua componente femminile (i maschi mi sembrano ancora più sereni nel modello che hanno inchiavardato loro in testa, ma forse è solo una mia impressione. Se non vogliono il posto fisso è perchè non si sentono ancora pronti a fermarsi, non perchè stiano mettendo in discussione il fatto stesso di fermarsi).
Penso che sia tutto molto distruttivo, non c'è niente come un contratto e un mutuo per cancellare nella gente il ricordo di cosa voleva fare a tre anni.
O forse è l'inizio di un mondo, in cui i fiorai, i sarti, i panettieri e i giornalai finalmente sorridono.
Spesso siamo e facciamo quello che gli altri si aspettano da noi o vogliono per noi. A volte è difficile essere e fare quello che ci rende felici. Però con un po' di coraggio e un briciolo di follia ... ;-)
RispondiEliminaBel post, grazie!