Oggi sono dieci anni dal G8 di Genova.
Ne parlavo oggi con un amico e mi fa impressione l'idea che siano gia' passati cosi' tanti anni. Racconto la storia di come l'ho vissuto io e mi sento una nonna che ha ancora addosso le sensazioni della seconda guerra mondiale e non ti parla di geopolitica, ma di polvere in bocca e macerie.
Per me il G8 e' una sera a casa di mio marito, che non era ancora marito, in cui decidiamo che fare, se andare anche noi con gli altri o meno. Davanti a un bicchiere di vino e alla pasta al tonno. O forse al risotto. Era l'epoca in cui cercava di convincermi di essere un gourmet sopraffino e in cui mi illudeva di parlare con il riso nella pentola.
Discutiamo sicuramente di V. e delle altre tute bianche, che vanno senz'altro, anche se poi li arrestano. Era l'epoca in cui cominciavano ad arrestarlo, di M. che si muovera' con la banda e il sax, diciamo che sarebbe bello andare con la sacca da giocoleria. Abbiamo una sacca piena di clavette che girano a piombo, palle morbide da lanciare in aria, cerchi e fresbee. Niente diablo, non siamo mai stati capaci. Nella borsa ci sono anche due nasi rossi da clown perche' da poco abbiamo fatto il corso di clownerie e sopra la sacca, che e' gialla con la corda rossa, ci ho ricamato una scritta: "la vie est dans la rue".
E' la mia prima fase della decrescita, allora non produco cibo dai semi ma mi vesto di roba per lo piu' usata che trovo al mercato della Montagnola e mi cucio le borse da sola. Le regalo e le vendo anche, su un banchetto per strada. Mi dicono che sono brava, le faccio robuste e non si scuciono mai.
In fondo non e' molto diverso da ora, questo bisogno di fare cose con le mani e non solo con la testa l'ho sempre avuto.
Comunque pensiamo che sarebbe bello andare a fare giocoleria a fianco delle persone che manifestano, mettersi in un angolo e coinvolgere la gente nei giochi che lasciano adulti e bambini a bocca aperta, anche la cosa piu' semplice, anche le tre palline che girano nell'aria.
Ridiamo del fatto che V. e M. non approveranno, perche' loro la prendono molto piu' seriamente di noi.
Per noi e' una festa, non ci sfiora nemmeno il concetto di pericolo.
Ne abbiamo fatte tante, di manifestazioni. Io e' dal liceo che manifesto appena ce n'e' la possibilita', perche' trovo cosi' bella questa comunione di intenti alta, intensa, politica per come la politica la vedo io. Siamo capaci. Non facciamo cazzate, nessuno ne puo' fare a noi.
Ci sentiamo innocui e lo siamo. Siamo studenti dell'universita' di Bologna, e' la nostra mezz'ora di ribellione concessa a tutti, stara' a noi continuare a vivere da ribelli dopo, rifiutando sempre la via piu' comoda, qualunque essa sia. Anche quella della manifestazione.
A. sta per partire per gli Stati Uniti, ho un dolore fondo nello stomaco all'idea di non vederlo per cosi' tanto tempo, forse mai piu'. Io partiro' un mese dopo per Parigi, devo fare gli esami, comperare il computer portatile da portare con me perche' nel frattempo hanno inventato il messanger e con il North Carolina comunichero' cosi'. Lo staro' comperando, a rate e facendo un prestito, due mesi dopo, l'11 settembre 2001.
Mia madre mi chiamera', quel pomeriggio caldo.
Hanno attaccato gli Stati Uniti, vieni a casa.
Sono seduta sul divano di casa mia a Bologna quando uccidono Carlo Giuliani, con la mia coinquilina di allora. Il giorno prima gia' si era capito, che ci sarebbe scappato il morto, le nostre clavette all'improvviso erano diventate armi potenziali, roba per cui potevi trovarti a Bolzaneto, con una denuncia o un calcio chiodato sulla testa.
Siamo a casa, con un senso di stupore che non lascia spazio nemmeno al rimorso perche' noi non siamo la' con gli altri a farci ammazzare di botte. C'e' N. ancora la' con Radio Fujico e qualcuno che conosciamo per Citta' del Capo (io non ci lavoro ancora), sappiamo che stanno tutti bene, ma siamo talmente destabilizzati dall'idea che la democrazia sia stata sospesa che non riusciamo nemmeno a preoccuparci dei nostri amici, dei nostri casi particolari.
Siamo ammutoliti. L'11 settembre, per me e molti altri, e' cominciato quel giorno, quando tutto quello che davamo per scontato all'improvviso non lo era piu', quando manifestare e' diventato una cosa da coraggiosi, quando un aereo puo' finire contro un grattacielo.
Il 20 settembre sono partita per Parigi. Erano giorni lividi, ci si guardava intorno con sospetto in metropolitana. I cestini dell spazzatura erano sacchi trasparenti per evitare le bombe, come se dopo quello che era successo si potesse ancora pensare di prevenire un attentato.
Avevamo tutti un grande punto interrogativo stampato sulla faccia, i pacchetti di A. con le lettere e i regalini dagli Stati Uniti arrivavano tardi perche' c'era il rischio antrace.
All'universita' ho conosciuto per primi i ragazzi con i cerotti. Una ragazza con i capelli corti, rasati da un lato, con un enorme pezzo di medicazione bianca sopra. Lei era stata due giorni a Bolzaneto. Si era fatta tutto addosso per la paura. L'avevano ferita ed era piccola ed esile. Era preoccupata per la denuncia e il processo, i suoi l'avevano mandata a Parigi perche' si distraesse e non ci pensasse, perche' continuasse a studiare e a far finta che non fosse successo niente, in quel paio di giorni. Che lo Stato fosse ancora amico.
C. aveva invece protetto tutti, aveva evitato a tanti le botte. Era la' con un'amica e aveva convinto una signora ad aprire il portone per farli rifugiare tutti dentro. C. e' cosi', un'empatia con il mondo cosi' grande da ispirare fiducia a una genovese terrorizzata solo parlandole al citofono. Spero abbia smesso di farsi troppe canne e di ammazzarsi d'alcool, perche' e' una delle persone piu' pulite dentro che abbia conosciuto.
Non lo vedo da anni, ci siamo scritti, so che ha una bambina che si chiama Perla.
Oggi, dieci anni dopo, penso a tutta quell'innocenza perduta. Non solo la mia, quella di tutto il Paese, che all'improvviso sa che e' possibile ovunque, e' possibile sempre, che il mondo si rovesci all'improvviso.
Che si va avanti comunque e torna il sole.
Ma non e' lo stesso.
E non e' piu' per tutti.
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