martedì 17 maggio 2011

Inventario degli odori felici

Il Profumo di Suskind e' un bel libro. Un po' paraculo, se mi consentite il termine. Un'ottima idea, un'ambientazione che attira (chissa' perche' il medioevo affascina tanto le persone?), una scrittura facile di chi ha buona penna e sa di averla, un po' di sangue e sensualita' splatter che non guastano mai. Il narrare attraverso gli odori la vertigine di un'ossessione che si svela mano a mano al lettore ha un certo fascino.
L'unica cosa e' che io non trovo niente di inquietante negli odori. Mi sforzo, ma non riesco ad associare il profumo a qualcosa di negativo.
Eccovi quindi il mio inventario degli odori felici, partendo ovviamente dal giardino in questo splendido maggio di sole e caldino perfetti.
Gia' sotto la pergola si sentono il rincosperno, un po' dolciastro, e il gelsomino (che ho il sospetto sia un caprifoglio giallo, ma questo lo studiero' il prossimo week end). Sanno di cene a bere birra densa ridendo come matti per scenette da stanlio e olio, di colazioni pigre di domenica, con la mia amica in maglietta e mutande che mangia i biscotti dietetici che sembrano truciolato dell'ikea, di chiacchiere sulla vita fatte per il gusto delle parole che rotolano in bocca, con i fili del ragionamento resi piu' lisci dall'alcool. La gatta piccola cosi' piccola che passa per i buchi del cannicciato ha quell'odore, cosi' come le corse dietro uno scarafaggio della stessa gatta fattasi grande e coraggiosa. E' il profumo di una lanterna verde regalata per compensare una faticosissima serata a progettare una cucina, che brilla nella luce fioca che ondeggia di piante.
Uscendo dalla pergola si incontra il profumo di una rosa banale, una rosa rosa che non avrei mai piantato, ma che ho ereditato e che mi riempie di soddisfazione con i suoi mazzetti fitti, con i petali persi sul pavimento come dietro una sposa nei giorni di vento.
Da destra si insinuano gli odori densi degli odori da cucina. La menta li copre tutti, intensa come il mohito di un aperitivo di tanti anni fa, in un bar antico vicino al palazzo del mio primo lavoro. Sembrava un destino. Sono arrivata in questa citta' e il mio primo ufficio stava in un edificio storico, con un nome strano, "delle stelline". Mi hanno spiegato subito che era un posto di suore e che le stelline erano le bambine, le orfanelle esposte e raccolte attraverso una ruota che ancora si vede sulla parete. Anch'io ero sperduta, anch'io ero nuova a quel mondo e avevo bisogno di qualcuno - preferibilmente non una suora - che mi badasse e accogliesse. In quel bar vicino conoscevo i colleghi che surrogavano gli amici che non avevo ancora. Mi convincevo mi piacessero anche se non era vero, perche' volevo che la ruota girasse per poter essere dentro. La menta era la via di accesso a quel desiderio cosi' intenso che adesso mi fa sorridere.
Il timo, la melissa, il rosmarino, la salvia dalle foglie grandi non sanno di niente, bisogna toccarli per sentirsi sulle mani un odore che e' quasi un gusto.
I pomodori pizzicano il naso, come le foglie pizzicano le mani. Sanno di Corsica, di serate umide fuori dalla grande casa che chiamerei della liberta' se non fosse quanto di piu' lontano esista dal partito che usurpa questo nome, con l'accappatoio addosso a raccogliere frutti grossi e gonfi su cui passeggiano insetti buoni per grigliate senza carne, almeno per me.
Vicino all'orto stanno le rose che ho scelto, quelle che sanno del maggio della mia infanzia, quelle raccolte nei giardini un po' storte e spampanate, che non so nemmeno se sia italiano. Le rose delle passeggiate verso la Pieve, io atea inebriata dalle mani piene di fiori delle donne del mio paese, che camminavano in una festa della rinascita dopo l'inverno che inneggiava a Maria come a Persefone che ritorna dall'Ade sulla terra di sua madre (forse la storia piu' bella di tutte le storie mai raccontate). Bianche e rosa sui bordi, piante non sane ma combattive, capaci di foglie tempestate di muffe antiche e increspate dalla cattiva salute che fioriscono lente, ma hanno boccioli che sembrano non smettere mai di allargarsi in cento mille petali che frusciano nell'aria ferma, lanciando un profumo che e' un grido piu' che un canto, che e' la disperazione della vita breve vissuta con tutta l'intensita' che un destino su uno stelo possa concedere.
Poco piu' in la', la rosa violetta che sa di limone, discreta e misteriosa, l'ultima che ho comprato domenica scorsa e che lunedi' mi sono trovata in ufficio. Qualcuno ne aveva raccolto un bocciolo in un posto lontano da li' e aveva pensato di portarla in quello stanzone per godersela un po'. Ed era proprio lei, figlia di una pianta gemella alla mia, quella che avevo scelto fra mille in una grande fiera, perche' era diversa fra tutte. Il caso e' un artista.
A fianco ha il limone a rafforzarla nel suo odorare soave e leggero, che chiude in una danza, in un sospiro, in una ninnananna per le serate senza sonno l'inventario dei miei odori felici. O almeno di quelli del mio giardino.

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