Ho pensato che era ora di cominciare a raccontarvi dei miei morti.
Puo' sembrare una cosa un po' macabra, ma vi assicuro che non lo e'.
Il cimitero della cittadina in cui sono sepolti tutti i miei parenti e' un posto bellissimo, con un quadriportico tutto intorno e un grande giardino in mezzo. Mia madre racconta sempre che quando da piccola lei e mia nonna mi portavano con loro al cimitero, io cominciavo a ispezionare ogni tomba con cui non avevamo nulla a che fare, controllando quali piante avevano bisogno di essere innaffiate, per poi fare avanti e indietro con i secchi pieni dal rubinetto comune. Quando ogni pianta trascurata aveva avuto le sue cure, andavo ai grandi cesti di ferro battuto in cui allora si buttavano i fiori appassiti e ripescavo tutti quelli ancora freschi e non sciupati. Ne facevo grandi mazzi e ricominciavo il mio giro. Sulle tombe c'erano spesso vasi vuoti e io distribuivo i miei omaggi riciclati ai troppi morti senza fiori, finche' il mio personale equilibrio cosmico non si era ristabilito. A quel punto facevo visita ai miei parenti che riposavano sotto diversi archi del portico, come avrei fatto un saluto suonando ai campanelli delle vie del paese. Il fatto e' che uno dei tanti doni di mia madre e' una relazione di grande continuita' fra chi appartiene a questo tempo e chi non c'e' piu', una visione della vita in cui le generazioni camminano sulla stessa terra, attraverso storie e parole che trattengono in questo mondo chi se n'e' gia' andato. Mia madre ha un fondo animista che mi ha trasmesso con il latte, attraverso il quale ogni oggetto si porta dietro una persona, ogni avvenimento una storia, ogni casa degli abitanti. Conosco cosi' tanti aneddoti sui miei avi da parte di madre che mi sembra di averli conosciuti tutti, compresa la bisnonna Isabella che, purtroppo, e' scomparsa per tisi prima del 1930, incluso lo zio Arcangelo, che era sordo, muto e cieco, ma era stato mandato a scuola per imparare a parlare e quindi si faceva capire, anche se faceva un po' paura ai bambini. Persino le prozie Giovanna e Bruna mi pare di doverle ritrovare quando vado a Vignola, anche se sono morte a quindici e diciassette anni cosi' tanto tempo fa che mia nonna e mia zia si chiamano come loro. Da piccola, a me impressionata che indicavo i loro nomi sulla grande lastra di una delle tombe di famiglia, le due signore, che all'epoca mi sembravano gia' vecchie, dicevano ridendo che era meglio cosi', che non ci sarebbe stato bisogno un giorno di far faticare di nuovo lo scalpellino. Ora sono ancora qui e gli scalpellini non ci sono piu', ma ridono ancora di questa inquietante omonimia che a loro sembra perfettamente normale.
A casa mia e' usuale indicare i proprietari degli oggetti come se fossero tutti vivi. "Vai a prendere le tazzine della zia Rosina" (defunta centenaria nei primi anni ottanta). In bagno, qui in citta', uso come tenda un asciugamano dell'Elda (anche lei morta a cento anni, non tanto tempo fa), mentre i libri di Giancarlo (lui no, strappato giovane a una me ragazzina) sono sulla mia libreria. Sembrera' un dettaglio, ma non usare aggettivi o perifrasi che collochino quelle persone nel mondo dei morti, frasi come: "i libri del povero Giancarlo" o "le tazzine che erano della zia Rosina" colloca i miei parenti sul nostro stesso piano, fa pensare che tu possa entrare in salotto e trovarli li', o sentirli entrare in casa da un momento all'altro.
Vale per quelli che ho conosciuto e per quelli che non ho mai visto. Ieri passeggiavamo per i filari di Piumazzo, raccogliendo duroni lucidi come gioielli, e mi pareva di veder vagare, chissa' perche' con le mani intrecciate dietro la schiena e il passo un po' curvo di mio zio, mio nonno, morto prima che io nascessi, che amava camminare nei campi, anche se non poteva lavorare perche' un infarto lo aveva gia' colpito da giovanissimo e un altro se lo sarebbe portato via poco dopo. Un uomo silenzioso e schivo, cosi' diverso dalla mia nonna volitiva, chiassosa e viaggiatrice, che non coglieva come lei l'anima commerciale di quel luogo, ma solo la poesia di un sole gia' caldo ma non ancora spietato su perle rosso sangue intrecciate alle foglie.
Stamattina, invece, affacciata al balcone della casa di Vignola, guardavo al piano di sotto la grande terrazza delle zie, con le ringhiere ormai tutte arrugginite sulla balaustra, messe li' per attaccarci le cassette dei gerani, anche se alle zie la terrazza e' sempre sembrata piu' che altro un posto in cui stendere.
Rosina e Irma abitavano li' e non si erano mai sposate, avevano badato a lungo allo zio Arcangelo, quello sordomuto e cieco, per poi prendersi cura di Bianca Maria, che era rimasta orfanella. L'avevano vista nascere, perche' era figlia della loro sorella sposata. Appena venuta al mondo le avevano messo una sveglia attaccata all'orecchio e lei aveva pianto spaventata. Le zie avevano tirato un sospiro di sollievo. La bambina non era sorda come a volte in famiglia capitava.
Era successo anche a un'altra loro sorella, che penso si chiamasse Maria. Era bellissima. Il pomeriggio stava seduta a ricamare sul balconcino che dava sul corso del paese, dove passava ogni sera un ufficiale dell'esercito. Penso stiamo parlando della prima guerra mondiale, non certo della seconda. Immaginatevi lei con il colletto alto, la crocchia gonfia, la gonna fino in fondo ai piedi. Lui con i baffoni e le mostrine sulle spalle. Ho molte foto che ritraggono tutti piu' o meno cosi', un po' sbiaditi ma elegantissimi. L'ufficiale sorrideva alla ragazza, lei a lui. La cosa ando' avanti per mesi, finche' in paese non se ne accorsero, con crescente dolore. Qualcuno, con una stretta al cuore, ebbe il coraggio di dire al soldato che Maria del balcone era davvero bella come la vedeva il suo amore, ma sorda e muta, impossibile a quei tempi da sposare. Si dice in famiglia che lui pianse e non si vide mai piu' da quelle parti. E' certo che lei mori' poco dopo.
Bianca Maria, comunque, era una bambina sanissima, che crebbe e divento' la mia insegnante di ricamo prima, quando ero piccola e scendevo da lei la sera a guardare la tv, fare gatti storti a punto croce e chiacchierare di tutto, perche' di Bianca Maria mi piaceva che mi parlasse sempre come a un'adulta. Divento' la mia maestra di latino poi, quando le sue mani bellissime, con al dito un anello che mia mamma mi ha regalato quando mi sono sposata e lei non c'era gia' piu', mi mostravano l'ordine giusto per trasformare un intrico di sillabe senza senso nella prosa elegante e un po' pomposa del Cicerone della versione.
Bianca Maria mi ha fatto i buchi nelle orecchie a sei anni, mi ha insegnato, insieme a mia madre, ad amare le parole sopra ogni altra cosa, mi ha salutata una sera d'estate come solo lei avrebbe potuto fare.
Era gia' malata da tanto. Per fortuna negli ultimi giorni si era persa in un mondo lontano, fatto di tutte le scene piu' belle della sua vita nubile e senza figli, ma con tanti studenti, libri e articoli, la cultura fatta donna, come solo la prof. stimatissima di una cittadina di provincia puo' imcarnarla. Io stavo seduta al suo fianco, le tenevo la mano che strappava la flebo, convinta di non averne piu' bisogno nei prati e nelle aule in cui si trovava. Continuavo a rispondere alle sue frasi per me senza senso, cercavo di carpirle un'ultima storia, sentirle ancora una volta raccontare la realta' con la precisione in technicolor di chi conosce le parole esatte per dire quello che vuole.
Ad un certo punto i suoi occhi grandi e un po' all'infuori (non dovuti alla fine della vita, occorre dirlo. Bianca Maria aveva le mani belle, il resto molto meno) mi hanno trovata. Mi ha guardato con l'aria gioiosa di una bambina che non vede l'ora di rivelarti un segreto, che sa che non dovrebbe, ma non resiste.
Ha sorriso in modo quasi malizioso, per quanto il suo naso severo e le labbra sottili glielo permettessero, rapita dalla bellezza assoluta di quello che aveva in mente.
"La vuoi sentire una bella parola?" mi ha chiesto.
Ho annuito.
"Crepuscolo".
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